Capitolo 2

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Mentre passeggio per il paese inizia a piovere, così mi infilo in un bar e ne approfitto per un veloce aperitivo. Capisco in fretta di essere finita nel bar sbagliato. Le bariste sono scorbutiche, i ragazzi giovani passano veloci solo per prendere le sigarette, i clienti che si fermano sono tutti piuttosto anziani. Memo mentale: il bar di fronte alla fontana è un bar per vecchi.

Mentre aspetto di finire lo spritz e scappare, rileggo un paio di mail che avevo scambiato con la direttrice della Fondazione Viridis. Il progetto è buono, anche se ambizioso e ancora po' disorganizzato: avviare un negozio, un punto vendita (o qualcosa di simile) dove vendere i prodotti realizzati nei laboratori dagli utenti della struttura.

Da quanto mi ha spiegato la direttrice, la Fondazione offre servizi a persone con disagio psichico. Gli utenti, che vivono all'interno di Viridis, seguono percorsi volti ad acquisire competenze legate all'autonomia abitativa. Durante il giorno hanno la possibilità di frequentare laboratori (falegnameria, ceramica, cartotecnica, serigrafia) attraverso i quali si avvicinano al mondo del lavoro. Il mio compito sarà quello di creare un sistema che permetta la vendita di questi prodotti di alta qualità, cercando di avere delle entrate tali da rendere la Fondazione il più auto-sostenibile possibile. Ad oggi, molti oggetti rimangono invenduti o vanno regalati.

Ho portato avanti progetti simili in passato, ma questo è decisamente molto più complicato e ambizioso. Per partire preparata ho chiesto di poter ricevere alcuni manufatti e, devo ammettere, sono di alta qualità, tant'è che li ho fatti valutare anche da esperti del settore. Questo è un ottimo punto di partenza, ma la strada sarà molto in salita. L'apertura di un negozio con l'ambizione dell'auto-sostenibilità implica un lavoro molto più articolato: sopralluoghi, concessioni, scelta o addirittura introduzione di nuovi prodotti, pricing, pianificazioni, branding, comunicazione. Una bella sfida per il tempo concordato! La difficoltà dell'impresa mi ha imposto di delegare parecchio del lavoro milanese ai miei collaboratori, anche se mi sono impegnata a mantenere la consulenza a distanza per tutti i miei clienti miei storici.

Questo incarico non è solo molto impegnativo, ma è il primo così lontano da Milano. Farà da test verso possibili future espansioni, oltreché mia personale disintossicazione.

* * * *

Un po' come il primo giorno di scuola.

Un po' come il primo giorno di scuola.

Un po' come il primo giorno di scuola, prima di coricarmi vengo presa dal panico, dalla sensazione di non farcela e dall'ansia. Come a leggermi nel pensiero, a salvarmi, arriva il mio socio Elia, che mi scrive uno dei suoi messaggi motivazionali.

E: Becca, domani andrà tutto benissimo, stai tranquilla, sei un panzer e ti ameranno. Vedi solo di non farli innamorare troppo, perché io non voglio litigare per riaverti. Io ti rivoglio qui, ho bisogno di te qui. È solo una settimana e mi sento già di aver perso una stampella.

B: Scemo, so che è una settimana che festeggi!

E: Non è vero, oggi che nessuno mi controllava ho bevuto un numero infinito di caffè, ho la tachicardia e penso mi verrà la gastrite.

B: Ah ah ah - sei il solito ipocondriaco !

E: Non ridere di me. Io sono geloso di questi clienti che ti avranno tutta per loro per sei mesi interi. Becca, so che in questo momento sarai in preda all'ansia e ai ripensamenti, ma hai fatto la scelta giusta e spaccherai i culi. La nostra azienda avrà la possibilità di essere conosciuto anche fuori Milano.

B: Speriamo, abbiamo investito tanto in questo test.

E: Non ho dubbi, andrà alla grande. Ti voglio bene!

B: Anch'io ti voglio bene, notte notte Elia.

E: Notte Becca.

Io e Elia abbiamo studiato economia assieme alla Bocconi. Finita la magistrale in marketing siamo entrambi andati a lavorare per una grossa agenzia di consulenza, ma io, nonostante avessi fatto carriera molto in fretta, non mi riuscivo ad accontentare. Volevo essere il top dei top, così l'ho salutato e sono partita per un corso di specializzazione alla London Business School con la presunzione di poter poi avere la city ai miei piedi.

L'altissimo costo della vita ha prosciugato in fretta i miei risparmi, così ho cercato un lavoretto: di giorno studiavo e la sera servivo birre. Ci sono volute poche settimane per capire che il lavoro al pub non faceva proprio per me, ero impacciata tra i tavoli, rincasavo tardissimo e avevo dei seri istinti omicidi ogni volta che trasmettevano in tv delle partite di calcio. Vicino a casa c'era una comunità per minori e, quando ho saputo che cercavano personale, non ci ho pensato due volte. Il lavoro su turni s'incastrava molto meglio con lo studio e non poteva sicuramente essere peggio del pub. Contro ogni aspettativa, il lavoro di educatrice mi piaceva tantissimo. All'inizio lavoravo tanto sul campo: svegliavo i ragazzi, servivo loro la colazione, li seguivo nei compiti e, in maniera molto impacciata, cercavo di aiutarli nei loro drammi. Mi ero affezionata a uno di loro, tanto che ho girato mezza Londra per aiutarlo a trovare un lavoro che gli desse la possibilità di essere più autonomo. Nonostante le sfuriate e le litigate, il direttore mi ha preso in simpatia e mi ha messa nell'ufficio responsabile al collocamento lavorativo dei ragazzi. E i mesi successivi sono stati un vortice: sfruttando i contatti maturati alla Business School, sono riuscita a creare tantissimi ponti per il collocamento e anche delle interessanti raccolte fondi. Assieme ad alcuni colleghi siamo riusciti a aprire anche un laboratorio per i ragazzi che non erano pronti ad un lavoro sul libero mercato: la ciclo-officina. Recuperavano biciclette rotte e le sistemavano così da dargli una nuova vita.

Lavorare e studiare mi risucchiava tutto il tempo, vivevo a Londra senza vivere Londra, ma ero così felice di quello che ogni giorno costruivo che mi bastava. Mi veniva naturale e mi sembrava di essere nata per quello. Cosa che a Milano non avevo mai provato. Non che non mi piacesse il mio lavoro, ma era diverso. A Milano producevo, bruciavo la concorrenza, mi impegnavo e facevo tantissimo. In fretta ho fatto diversi avanzamenti di carriera, ma era diverso. Lì lo facevo per l'azienda, ma soprattutto per me, perché volevo arrivare in alto e in fretta. Sembrerà banale, però rallentare, essere orientati alla persona e non al prodotto, sapere che la realizzazione degli altri è possibile anche grazie al tuo contributo, è una sensazione indescrivibile.

Un anno e mezzo dopo, concluso il mio master, all'inaugurazione della ciclo-officina, ho salutato i miei ragazzi tra le lacrime e gli abbracci. Mi avevano insegnato che all'interno di ognuno c'è una luce che ha solo bisogno di capire come essere accesa. Io li avevo aiutati, ma loro avevano aiutato me più di quanto avessi mai potuto immaginare.

Il progetto di conquistare la city e diventare un temibile squalo era stato sostituito dalla volontà di creare qualcosa che fosse l'unione tra il manageriale e il socialmente utile. Ho chiamato qualche ex-compagno di università per proporgli di lanciarsi in una nuova avventura: fare i manager, non per grandi aziende orientate al profitto, ma lavorare per associazioni, cooperative o fondazioni. All'inizio, l'idea di diventare i nuovi manager del sociale ha stuzzicato, ma, dopo mesi di analisi, il gruppo si è sgretolato. I margini di guadagno erano pochi, come anche le possibilità di crescita e carriera, così da dieci ci siamo ben presto ritrovati in due, io ed Elia. Ci sono voluti oltre cinque anni di sacrifici, sconfitte e qualche lacrima, ma piano piano siamo riusciti a ritagliarci qualche bell'ingaggio.

In questi anni il team è cresciuto e abbiamo superato i sette dipendenti: under 30, coesi, felici e con un sacco di voglia di fare. Questo lavoro non ci dà visibilità, lo stipendio non è paragonabile a quello dei nostri compagni di università, però possiamo vantare un ritmo sonno-veglia regolare, tantissime soddisfazioni a livello umano e soprattutto la possibilità di lavorare con gli altri e non contro gli altri. 

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