Capitolo 24

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Le mie giornate a Milano sono tutte uguali. Per non ascoltare il vuoto che sento dentro mi riempio di lavoro: entro in ufficio con il sole che sorge ed esco con la luna già alta.

«Stai lavorando troppo», sento dire dal mio socio alle mie spalle.

«Elia. Nell'ultimo anno sappiamo entrambi che ho lavorato meno di tutti», replico senza troppa voglia di affrontare questa conversazione.

«Sono tuoi dipendenti. Sei il loro capo. Non rispondi a loro.»

«Ma rispondo a te. Tu sei mio socio e io mi sento in colpa per aver trascurato la società.»

«Tu non hai trascurato la società. Hai lavorato benissimo anche a distanza, il nostro fatturato è aumentato e ci stanno contattando un sacco di realtà fuori dalla Lombardia. Dopo il tuo successo con la Fondazione Viridis si è sparsa la voce. La tua trasferta ha avuto delle ricadute super positive per la società». Mi guarda intensamente e con un tono decisamene più triste aggiunge: «Almeno a qualcosa ha fatto bene».

Lo guardo, serro la mascella, mi volto veloce e corro verso la porta.

«Becca» insiste correndomi dietro.

«Noi non ne parliamo», dico voltandogli ancora le spalle. Gli occhi bruciano e le parole tremano.

«Prima o poi dovremo parlarne».

Riprendo a camminare verso il mio ufficio senza voltarmi. «Non sono pronta.»

«Vedi di esserlo presto, perché di questo passo non arrivi ai trentun anni», urla dietro di me mentre le lacrime mi rigano il viso.

* * * *

A troppi pochi giorni di distanza dalla discussione con Elia, è Ludovica che si intromette nella mia vita.

L: Becca, ti passo a prendere e andiamo a bere qualcosa. Non ti vedo da settimane. So che stai male, ma devi parlarne con qualcuno. Io ci sono, non ti riesco a vedere ridotta così.

B: Ciao Ludo, sono piena di lavoro, facciamo un'altra volta.

L: Becca è due mesi che non esci da quell'ufficio. Ti prego.

Non rispondo, ma quaranta minuti dopo sento la porta del mio ufficio sbattere seguita da un ticchettio familiare.

«Così non ti si può vedere», mi urla in faccia Ludovica senza neanche salutare.

«Cosa c'è che non va?» Mi alzo in piedi fingendo una sfilata e mostrando il mio solito sorriso di circostanza.

«Piantala, sai di cosa sto parlando. Non sono i vestiti», sembra arrabbiata, «sei bianca, dimagrita, sciupata: sembri un fantasma! Dobbiamo uscire. Hai bisogno di uscire. Di vedere persone. Di staccarti da quel PC, di mangiare», dietro di lei vedo Elia che annuisce.

«Vi siete messi d'accordo?» Chiedo nervosa «Io non ce la faccio più a sentire le vostre ramanzine. Cosa volete che vi dica? Sto male.» Mi sento urlare «Sto malissimo, ho un vuoto dentro che mi sembra mi divori. Fatico a fare tutto. Quelle poche energie che ho le butto nel lavoro e nei finti sorrisi che cerco di dispensare».

I miei amici mi guardano senza interrompermi.

«Mi sento rotta. Provo a mettere insieme i cocci, ma è come se non trovassi mai l'incastro giusto. Sono una centrifuga di emozioni brutte e tristi. Non vi piaccio. Lo so. Neanche io mi piaccio. Ma non so cosa fare. Non so come fare».

Urlo tutta la rabbia che ho in corpo.

Ludovica si avvicina, mi abbraccia forte e subito si aggiunge anche Elia.

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