Capitolo 21

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È arrivata la fine di luglio, ciò significa che mi sono trasferita da ormai 11 mesi e le cose sono notevolmente migliorate. Al lavoro la situazione è meno tesa e in paese ho una vita vera e piena: amici, feste, aperitivi, cene e gite.

Un giorno Neil arriva da me con una scatola.

«Ti ho fatto un regalo per il tuo compleanno»

«Lo vedo, ma il mio compleanno è la settimana prossima. Non dovevi», mi irrigidisco.

I regali mi mettono a disagio, mi sembra di essere in difetto. Mi piace farli, quello sì. Amo trovare la cosa giusta e vedere il sorriso delle persone quando ci azzecco. Ma con me è difficile, io sono una persona difficile e di conseguenza farmi i regali è difficile. Quindi mi trovo sempre in quella situazione imbarazzante, dove mi arriva qualcosa che non mi interessa o non mi piace e me lo si legge in faccia. Cala l'imbarazzo e magari l'altro si offende pure. Quindi io odio i regali, perché mi hanno sempre portato a momenti molto spiacevoli.

«Lo so che il tuo compleanno è la settimana prossima, ma ci tenevo a dartelo e, visto che sarai a Milano, ho deciso di dartelo in anticipo».

«Neil non mi piacciono i regali».

«Lo so».

«Allora perché mi hai fatto un regalo?»

«Perché so che non ti piacciono i regali, ma questo l'ho fatto io e io non sbaglio quasi mai. Ti piacerà».

«Speriamo».

Sotto la carta trovo una scatola in legno e dal profumo capisco che non è qualcosa tipo IKEA, ma artigianale. Prima di aprirla respiro a pieni polmoni l'odore della resina e poi, come se avessi tra le mani un tesoro, la apro.

La prima cosa che vedo è una fotografia di noi e sento già gli occhi diventare lucidi fino a riempirsi di lacrime, quando vedo il resto. La scatola è piena di cose: scatti rubati, titoli di canzoni, date, frasi, messaggi che ci siamo scritti.

«È bellissimo», dico con le parole spezzate e non riesco a fare altro che baciarlo.

Quello che succede dopo non è per nulla senza impegno. La dolcezza e la perfezione di quella notte mi fanno capire che non si parla più di sesso.

* * * *

Benvenuta a Milano penso mentre la mia faccia è incollata alla schiena sudata di uno sconosciuto in metropolitana. Giuro che tutto questo non mi mancava. La gente senza deodorante che si tiene alle maniglie, le corse nella seconda fila delle scale mobili, l'ignorarsi vicendevolmente.

«Porta Garibaldi, fermata Porta Garibaldi» annuncia la voce metallica dagli altoparlanti.

"Finalmente è finito il supplizio" penso, appena fuori da quella scatola di latta stipata di persone.

«Non sono più abituata», dico a Elia appena lo vedo in cima alle scale della metro con due cappuccini in mano.

«Buongiorno a te», risponde sorridendo, «poche ore a Milano e sei già in mood Milanese Imbruttito

«Perdonami! Come stai Elia? Mi sei mancato, tantissimo».

«Lo so lo so, anche se non si direbbe, visto che non ti fai sentire», si ferma e finge di squadrarmi, «comunque Becca guardati, sei un incanto, la collina ti sta facendo proprio bene».

«Grazie».

«Chiaramente so che non è solo la collina».

«Sai di Neil vero?»

«Certo tesoro, la Ludo mi ha aggiornato su tutta la vicenda. Tu che vedi un biondino dal fascino un po' indie, ti prendi una brutta cotta, e nel frattempo litighi con lo sbruffone moro del bar. Poi architetti tutto per braccare il biondino, ma alla fine si rivela una figa di legno e tu cedi alle lusinghe del focoso barista». Sono imbarazzata.

«Sì dai, un po' romanzata, ma nel complesso buona sintesi», taglio corto.

Camminiamo fino all'ufficio e mi racconta tutte le sue disavventure amorose degli ultimi mesi; una volta arrivati, ci rimbocchiamo le maniche e iniziamo a lavorare. Sono salita a Milano per qualche giorno perché avevo bisogno di chiudere di persona alcuni lavori. Così ho fissato cinque giorni di meeting con il team e i clienti per prepararci alle chiusure per le ferie estive.

«Ottimo lavoro ragazzi», dico mentre mi stiracchio. «Mi è davvero mancato vedere i vostri faccioni! Ma tra poco tornerò. Andate a casa che domani sarà una giornata altrettanto tosta».

Quando tutti sono usciti, Elia mi raggiunge con il cappotto in mano.

«Sei sicura che vuoi tornare?»

«Certo, devo tornare. Il mio lavoro giù è praticamente concluso e non ha senso che io mi fermi».

«Se lo dici tu. A domani Becca!» e se ne va dandomi un lieve bacio sulla guancia. E mentre nella mia testa continuo a ripetermi che non ha senso, non ha senso, non ha senso, suona il telefono.

«Ludo, dove sei? Io ho appena finito».

«Sono sotto, muoviti. So che hai finito, perché me lo ha detto Elia. Andiamo a bere qualcosa».

Siamo al terzo americano e l'argomento è ancora solo uno. Neil.

«Quindi ti ha raccontato della sua famiglia?»

«Sì, l'altra notte si è presentato a casa mia con un regalo super carino e si è aperto, mi ha raccontato la sua storia».

«Famiglia incasinata?»

«Un po'. Il papà di Neil si era innamorato di una giovane hostess olandese che dopo pochi mesi ha scoperto di essere incinta. La loro relazione si è trascinata per qualche anno tra Olanda e Italia, cercando di farla funzionare, ma quando Neil aveva quattro anni la mamma se ne è andata di casa, perché fare la mamma le impediva di fare carriera».

«Non capisco perché la sua storia ti ha sconvolto così tanto».

«Io me ne andrò», sento gli occhi inumidirsi.

«E cosa c'entra con la sua famiglia?»

«Chiaramente l'abbandono della mamma lo ha fatto soffrire un bel po'. Crescere senza una mamma, o meglio, con la consapevolezza che la mamma ha preferito il lavoro a te, beh. Ci sta poi che cresci e non credi nelle relazioni o hai paura di essere abbandonato».

Silenzio.

«Io non lo sto abbandonando, vero?»

Silenzio.

"Ludo, ti prego! Aiutami, ho bisogno di te!"

«Beh, ve lo siete sempre detto che sarebbe stata una cosa a termine, no?»

«Sì, ma le cose sono cambiate. Lui è cambiato, io sono cambiata. I nostri sentimenti sono cambiati».

Non riesco a fingere di non essere preoccupata. Le lacrime iniziano a scendere e la mia voce è interrotta dai singhiozzi.

«Becca? Tutto bene?»

«No, in realtà no. L'altra notte mi ha chiesto di rimanere».

«Ti ha chiesto di rimanere?»

«Mi ha chiesto di rimanere», confermo.

«E cosa gli hai risposto?»

«Che il mio lavoro stava per finire e che, come da programma, in qualche settimana me ne sarei andata. Che avevo un'azienda da portare avanti. Che la mia pausa sabbatica era finita».

«E lui?»

«Lui si è arrabbiato. E prima di uscire ha detto E così anche tu te ne vai».

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