CAPITOLO 22

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M. Richiedei "La Ninna Nanna dei Segreti. Prima parte. La famiglia"

©GPM Edizioni GPM Edizioni Via Matteotti, 1120061 Grezzago (MI)tel 340 99 39 016vinfo@gpmedizioni.it Illustrazione in copertina da Pixabay.com Progetto copertina di ©GPM Servizi Editoriali

TUTTI I DIRITTI RISERVATI.

Questo libro è opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzione dell'autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.

Il monastero di San Miniato al Monte si ergeva secolare vicino alla abbazia, uno dei migliori esempi di romanico fiorentino, in uno dei luoghi più elevati della città di Firenze. Fin dalla sua fondazione aveva ospitato i padri della chiesa che erano rimasti legati alle ferree regole del fondatore dell'ordine di San Benedetto e al suo codice.

Frate Gerardo vi abitava lì da decenni, da quando la sua prima dimora, quella che tutt'oggi veniva ricordata come Villa Santa Maria, era stata destinata a ben altre iniziative, anche se poi il progetto di costruirvi alcuni appartamenti e villette in stile moderno si era arenato più volte. Nel corso degli anni era diventata un luogo lugubre e disabitato, dove si scorgevano solo pochi turisti interessati, per lo più al seguito di qualche guida annoiata. Lui la visitava raramente, quando aveva bisogno di ritrovare i tempi andati, e si sentiva ancora legato agli anni trascorsi lì dentro con gli altri frati, ma era da un anno circa che non vi andava più. Quella mattina all'alba era lì che era diretto, portandosi appresso una pala nascosta sotto al mantello che gli accarezzava le caviglie a ogni passo. Se avesse spiegato a qualcuno il motivo della sua visita all'ex convento e anche le sue intenzioni sarebbe stato preso per pazzo, ma preferiva passare per uno senza senno piuttosto che restare a vivere nel dubbio. Anche se in verità in entrambi i casi, sia se avesse trovato ciò che aveva sepolto trentasei anni prima, sia se non ci fosse più, non avrebbe potuto fare altro che accettare la situazione senza porvi alcun rimedio. Perché rimedio alle sue colpe non ce n'era. Era proprio quel pensiero che da qualche settimana lo tormentava ogni notte, da quando sul giornale era apparsa la fotografia della sacrestia della basilica di Santa Croce, dove pareva fosse stato rinvenuto uno scheletro di donna, del quale neppure gli inquirenti erano riusciti a scoprire l'identità. Lui era stato il solo a scorgere nella fotografia, guardata con una lente di ingrandimento, quel piccolo particolare che l'aveva costretto a bestemmiare nascondendo subito dopo il volto fra le mani e chiedere perdono al suo Signore. Nessuno, forse neppure la polizia, era riuscita a scoprire quella spilla d'oro bianco consumata, ma ancora aggrappata a quel lembo di tessuto, ma lui sapeva. Da quel giorno gli incubi l'avevano soffocato, fino a che, due sere prima, aveva deciso di porre fine a quella tortura. Come aveva potuto scordarsi di quel piccolo particolare, insignificante agli occhi degli altri, ma preciso e incisivo ai suoi? Forse nella fretta di sotterrare il corpo, oppure perché quando aveva colpito la tata c'era troppo buio e anche scavare quella buca gli era parso un castigo troppo grande da sopportare. Aveva solo frugato nelle tasche del cappo di Teodora e nella sua borsetta, ma si era dimenticato di strappare la spilla segno di riconoscimento di chi gli aveva commissionato quel delitto. Dunque, la notte prima, aveva preso una decisione: sarebbe tornato al vecchio monastero, e avrebbe scavato nel punto esatto in cui aveva commesso l'omicidio per accertarsi che il cadavere della tata che aveva ucciso fosse ancora al sicuro. In caso contrario, avrebbe continuato a sperare che nessuno collegasse quello scheletro a lui o alla famiglia del cugino Edmondo. Del resto, avrebbe anche potuto dimenticarsi di tutta quella faccenda, visto che il caso era stata dichiarato chiuso e irrisolto appena lo scheletro era saltato fuori, e più nessuno aveva accennato al fatto. Ma tutte le volte che passava accanto alla chiesa di Santa Croce pareva che occhi minacciosi lo scrutassero dall'alto e che anche i passanti lo osservassero come se conoscessero il suo segreto. E poi c'erano gli incubi a tormentarlo di notte e non poteva di certo permettere che i compagni del monastero lo sentissero pronunciare il nome di Teodora o anche solo ammettere che era stato lui ad ucciderla per evitare che uno scandalo si abbattesse sulla famiglia, e dunque anche su di lui. Era stata l'età a renderlo così debole e timoroso di Dio e dei suoi castighi. Se trentasei anni prima gli avessero detto che un giorno si sarebbe sentito soffocare dai suoi peccati tanto da costringerlo a rifugiarsi nella basilica di San Miniato al Monte ogni sera, fino a tarda ora, per pregare per la sua anima, avrebbe riso sfacciatamente in faccia a chiunque. Lui non aveva mai avuto paura né dell'Altissimo né degli uomini, e commettere un delitto per evitare che dalle fondamenta di quella casa uscissero altri scheletri e fantasmi poteva essere un movente più che soddisfacente per mettersi il cuore in pace. Del resto, suo padre, prima di morire, gli aveva affidato suo cugino Edmondo, che per lui era sempre stato come un fratello, e sul letto di morte gli aveva chiesto di prendersene cura e di proteggere il nome della famiglia da ogni male. Da ogni male. Quelle parole gli riecheggiavano ancora nella testa. Lui aveva solo mantenuto la sua promessa, ma ora era tempo di scoprire se qualcun altro sapeva ciò che aveva commesso o se ciò che restava di quella donna era ancora al sicuro nel giardino dell'ex convento.

Ricordava il punto esatto: vicino a un enorme cespuglio di erica che cresceva intransigente soffocando la vegetazione e del quale aveva strappato le radici, prima con la pala, poi con le mani nude per riuscire a scavare una buca abbastanza profonda che celasse il cadavere. Certo, avrebbe anche potuto non trovare più nulla sotto quella terra scusa e fredda, ma trentasei anni non erano abbastanza per fa sì che anche le ossa scomparissero del tutto. Almeno un frammento lo avrebbe dovuto trovare, e allora avrebbe ricoperto la buca nascondendola con altra terra e foglie, tornando a dormire sogni tranquilli.

Il monaco salì sulla macchina e poggiò la pala sul sedile del passeggero, come se fosse una compagna silenziosa per quel viaggio.

Insieme a quello scheletro avrebbe dovuto comparire anche quello di una bambina di pochi giorni di vita, e forse Alfio, quando era stato stampato l'articolo sul giornale del ritrovamento dello scheletro non lo aveva chiamato proprio per quel motivo, perché credeva che lui avesse eseguito il lavoro alla lettera, e che dunque il cadavere ritrovato a Santa Croce non fosse della tata, ma di qualcuno altro.

«Ah, se sapesse!» si torturò padre Gerardo girando la chiave e dando gas. Si guardò alle spalle, ma il monastero era ancora immerso nel silenzio della notte.

I suoi fratelli dormivano ancora quando era uscito dalla sua cella e avrebbe fatto ritorno prima che la campanella li avesse destati dal loro riposo.

Quella sciocca donna aveva mentito quando aveva detto all'avvocato che avrebbe portato la bambina con sé la notte che si sarebbero dovuti incontrare all'ex monastero, per mettere fine a tutta quella faccenda. Era stata più intelligente di quanto l'avvocato aveva sperato e si era presentata sola, senza neonata e con un sorrisetto sulle labbra.

«Prima dammi i soldi, poi ti dico dov'è nascosta la bambina» aveva gridato gongolandosi e ridacchiando della sua faccia sorpresa.

Non erano quelli i patti, e lui non si faceva prendere in giro da nessuno, soprattutto da una sciacquetta di tata che neppure sapeva parlare correttamente l'italiano, e l'aveva minacciata di ucciderla se non le avesse detto dove fosse la piccola.

Ma lei aveva desistito, cercando di scappare minacciando la famiglia. C'erano altri segreti in quella villa da proteggere, e lei li conosceva bene. Lui allora l'aveva colpita alla nuca con un martello che aveva dimenticato al convento l'ultima volta che era stato costretto a riparare alcune assi alle finestre per evitare che qualche intruso vi entrasse di notte, e che aveva nascosto sotto la veste. Teodora sarebbe comunque morta e il suo si poteva pronunciare come un delitto premeditato. La tata si era accasciata a terra e non si era più mossa, e in quel momento si era reso conto di aver firmato la sua condanna a morte. Come avrebbe fatto a ritrovare la bambina senza di lei?

Aveva pensato di chiamare l'avvocato e riferirgli dell'accaduto, ma poi aveva cominciato a scavare la buca e, una volta nascosto il cadavere, si era convinto che di quella faccenda non avrebbe mai saputo niente nessuno. Forse la tata aveva mentito e aveva fatto adottare la figlia di Diletta da una famiglia guadagnandoci altri soldi, sperando con quel ricatto di ottenerne tanti altri. Lei comunque non avrebbe più potuto parlare, e Alfio Masi non avrebbe mai scoperto nulla, se anche lui avesse taciuto.

Della bambina di Diletta mai nessuno aveva parlato e questo per trentasei anni lo aveva rincuorato di aver assolto al meglio il compito che gli era stato assegnato. Ora però i suoi dubbi non gli permettevano di dormire, voleva e doveva sapere la verità.

Padre Gerardo fermò la macchina sulla strada, nascondendola dietro a un cespuglio di sempreverde che cresceva rigoglioso allungando i suoi rami verso l'alto. Scese e si guardò attorno, ma prima di raggirare l'automobile e recuperare la pala, scorse una pattuglia della polizia ferma davanti al cancello dell'ex convento, e un gruppetto di tre agenti che con le torce in mano perlustravano il perimetro. Stavano entrando nella proprietà e lui non avrebbe potuto fare altro che restare loro appresso senza farsi scorgere.

«Misericordia!» il frate si coprì la bocca con le mani. 

LA NINNA NANNA DEI SEGRETIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora