Prologo: Il bambino del mercoledì

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Anno Domini 851, Linguadoca,
Sacro Romano Impero

La pioggia batteva senza pietà sui boschi della Linguadoca, un diluvio di furia celeste che scagliava verso la Terra e i suoi peccati strali di saette candide che accecavano lo sguardo, venti selvaggi che assordivano chiunque ne venisse frustato riportando il rimbombo dei tuoni lontani e dardi d'acqua gelida mista a neve che ferivano la carne su cui precipitavano senza riguardo alcuno.

Nessuna anima si muoveva sotto a quell'improvviso scuotersi del mondo e delle sue sfere. Tremanti e spauriti, gli uomini si erano  ritirati in fretta nelle loro case, sperando e pregando a bassa voce che le pareti ed i tetti riuscissero a reggere il flagello che si stava abbattendo su di loro, indifferentemente dal fatto che vivessero in solidi castelli di pietra e roccia o in case di legno dai soffitti impagliati. Le madri avevano richiamato in fretta i figli e le figlie e gli uomini avevano governato invece le messi delle bestie per ricondurle rapide ad aie, ovili e stalle, sperando che ciò bastasse a placare il loro terrore che poi non era altro che lo specchio del proprio.

Nessuna anima viva osava muoversi, certo, ma la sagoma che si muoveva sotto a quello sfacelo viva non lo era più da molto tempo ormai. Da cinque anni e otto mesi ad esser precisi, da quando aveva preso servizio per il vescovo di Narbona e ne era diventato il sicario, la mano di ferro e di seta che eseguiva alla lettera le mortifere volontà di sua eminenza per permettergli d'apparire in pubblico come uomo compassionevole e saggio e, nel privato, di farsi rispettare dai suoi nemici e ancor più dai suoi "vassalli", mostrandosi implacabile e disposto a dar seguito a qualsiasi minaccia, anche alla più turpe e meschina, pur di fare rispettare e valere la sua autorità. Lo aveva pagato bene per i suoi servigi e lui, Faramondo da Reims come si faceva chiamare sebbene Reims non fosse la sua terra natia, non si era fatto mai scrupoli di sorta ad ammazzare, sventrare, mutilare, sfregiare o malmenare chiccessia, per nulla spaventato dalla minaccia d'esser spedito all'Inferno per questo. 

Del resto, come ripeteva sempre alle sue vittime prima di affondare la lama, per andare all'Inferno serviva un'anima e la sua gli era stata strappata molti anni prima, quando era stato obbligato a guardare tutto il suo villaggio, tutta la gente che consoceva e amava e costituiva il suo mondo di bambino, esser chiusa nella sala comune e morire fra grida e suppliche la morte infame delle fiamme una volta che venne appiccato il fuoco all'edificio sbarrato.
Da quel giorno aveva capito che gli uomini sono le bestie peggiori e aveva soffocato il suo spirito per divenire chi era.

O meglio, chi era stato.

Si perché anche Faramondo aveva dei principi e fra di essi c'era quello di non torcere un solo capello ad un bambino, ancor più se nato da poco come quello strillante che, in quel momento, piangeva furibondo nella cesta che sobbalzava assieme a lui mentre spronava il cavallo al galoppo sotto alla tempesta, tentando di mettere quanta più strada possibile fra lui e i suoi inseguitori.

Perché lui aveva disobbedito quella volta. 

Perché lui si era ribellato quella volta, rifiutandosi di piantare un pugnale nel cuore innocente di quei due cuccioli umani ancora non giunti al loro primo anno di età in un mondo che li aveva condannati per colpe non loro già prima che nascessero.

L'avrebbe convinta a fuggire coi piccoli se avesse potuto, ma la gran dama non si era piegata a lui o al vescovo e questo lasciava capire quando fosse ferreo il suo carattere. 

Ostinata come solo le discendenti delle genti di Roma sapevano essere, la dama dalle trecce bionde e gli occhi come acqua si era testardamente rifiutata di seguirlo e avere salva la vita, lontano da quel castello che le armate sotto ai vessilli di Narbona stavano assediando e saccheggiando dopo averne sconfitto i difensori, ed era rimasta stoicamente seduta in attesa del suo destino, chiedendo solo che i bambini sopravvivessero al tramonto del loro sole. Faramondo aveva accettato, vinto dalla volontà che aveva visto ardere in quegli occhi luminosi che condivideva coi due bambini addormentati, ma si era sin da subito reso conto che tentare l'impresa da solo era impossibile: poteva portare fuori e fuggire con un solo bambino, perché con entrambi non sarebbe mai riuscito a passare per l'angusto passaggio segreto che la donna gli aveva indicato.

La ballata del cigno e dello scorpione Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora