PROLOGO - PATRICK

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Appoggio la valigia sul letto singolo, mi aspettavo di meglio, dal dormitorio del MIT. La stanza non è spaziosa e ci dobbiamo dormire in due. Due di tutto, la libreria è una sola.

Il ragazzo seduto sull'altro letto mi fissa con un sorriso.
«Benarrivato».
Il suo dialetto mi suona un po' difficoltoso da comprendere.

«Grazie» sono spossato dal viaggio da New York, non mi va di ricambiare il sorriso.

L'altro si alza e mi tende la mano. «Io sono Matthew Roberts. Puoi chiamarmi Theo».
«Piacere, Theo. Io sono...» esito, prima di rispondere. Dire il mio nome per intero mi mette a disagio, qui in America. Mi sembra sempre di passare per il colonialista. «Patrick. Patrick, Albert, Amanda, Hastings-Ferguson».

Non smette di sorridere e la sua mano scura non smette a stringere la mia. «Oh, sono un sacco di nomi».
Un peso mi si solleva dal petto. Per una volta qualcuno che non mi guarda come un alieno. «Lo so. Da dove vengo è abbastanza normale», tiro su le spalle. «Non credi?».
«Mi è arrivata voce che vieni dal Regno Unito».

Confermo con la testa. «Sì, da Cambridge».
«La Cambridge originale» ride, «Quindi, come ti devo chiamare, Patrick un-milione-di-nomi Ferguson?».
Guardo per terra il parquet segnato, l'imbarazzo mi blocca le parole. «A casa mi chiamano Patrick. Banale, vero?».

Theo mi fissa in faccia e allunga il dito «Ehi, è una certa cicatrice quella che hai lì».
«Cosa?» porto la mano al viso, poi al collo e mi sento il cuore accelerare. Poi, ricordo «Ah, sì».

«Sembra una delle cicatrici del mostro di Frankenstein dei film vecchi in bianco e nero. È davvero impressionante! Ti dispiace se ti chiamo Frankie? Senza offesa, eh!».
Sfioro con le dita il segno che mi passa da una parte all'altra della gola, che brucia sotto ai polpastrelli. «Frankie, mi piace, sì».

«Senti, visto che sei arrivato ad anno già iniziato, mi sento in dovere di farti da guida, anche se siamo entrambi matricole» mi dà una pacca sulla schiena che mi svuota i polmoni. «Per cui, finisci di accomodarti e poi ci vediamo in biblioteca. Ti faccio conoscere gli altri del dormitorio. E anche qualche ragazza» mi strizza l'occhio.
«Va bene. Dammi un po' di tempo e arrivo, grazie».

Mi stringe ancora la mano «E su di morale: sei al MIT, non a un'università qualsiasi!» mi fa il pollice in alto mentre esce dalla stanza.

Solo, nel disfare la valigia, dispongo gli abiti nell'armadio, mi fermo poi a contemplarli, pensando all'abbigliamento di Theo.
Mi distingueranno come lo spocchioso britannico, con questi vestiti.

Chiudo lo sportello. Davanti c'è uno specchio che mi rimanda un'immagine dove tutto di me grida «sono inglese». Dalle scarpe da viaggio color marocchino, ai pantaloni classici beige e la giacca in tweed. Persino i capelli lunghi stile damerino del Settecento sono ordinati in una coda bassa, come ha voluto mia madre stamattina. Sono sicuro che Theo non ha avuto nemmeno bisogno di sentirmi parlare, per capirlo.

Frankie, il mostro di Frankenstein.
Occhi blu, acquosi, capelli lunghi e così neri che fanno sembrare ancora più bianca la mia pelle.
Sciolgo la capigliatura e la faccio cadere sugli zigomi. Quante volte ho avuto la tentazione di tagliarli, in queste settimane di ospedale. Ma il ricordo di... qualcosa, qualcuno, mi ha sempre fatto esitare.

Lo scintillio dell'anello che porto sulla mano sinistra mi ricorda la mia condizione di prigioniero idiota.
Ma questa cicatrice rossastra, che mi attraversa il collo con venti punti di sutura, sembra la ciliegina sulla torta della mostruosità, e un legame più forte di qualsiasi fede matrimoniale.

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