2.3 - PATRICK 💋

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TW: questo capitolo contiene linguaggio volgare

Al MIT non devo più stare addosso a Jane, o averla addosso.
Se proprio devo evitare il sesso, almeno non ho lei che mi rinfaccia le cose e poi dice che è meglio così perché nemmeno lei vuole fare nulla.

Mi hanno accettato in una delle più vecchie associazioni e so già il perché. Anzi, tutti sanno che sono entrato a mazzette e non per i miei meriti.
Fino a poco tempo fa, prima di risvegliarmi, non mi sarebbe importato molto. Tutta la mia vita è stata una arrampicata sociale, ma ora, per qualche assurdo motivo, mi sento un verme. E soprattutto so che dovrò farmi il culo per saltarci fuori.

Farmi il culo? Da quando uso espressioni così?

Il mio compagno di stanza, un ragazzo di colore, mi osserva mentre appoggio la valigia sul mio letto.
«Un mese di ritardo eh. Non è che magari...» indica il mio collo.

«Ho avuto un incidente. Sono stato in coma tre mesi». Alzo la mano e mi tocco la protuberanza lunga dieci centimetri, scarlatta, che nelle ultime due settimane non ho fatto altro che fissare ogni volta che mi trovavo allo specchio.

Lui spalanca ancora di più gli occhi «Amico, non mi dire che sei già prigioniero!».
«Prigioniero?».
«La fede, cazzo! Da quando in qua si viene a vent'anni, sposati all'università?».

Cerco di metabolizzare quello che ha detto, ha un accento terribile. Sbuffo. «Lo so, è una storia lunga».
Mi presento, vorrei evitare di dare troppe spiegazioni, anche perché non ne ho molte. «Salve, sono Patrick... Albert, Amanda, Hastings-Ferguson» spiego in un respiro. «Vengo da Cambridge. L'altra Cambridge, quella...» mi fermo. Sto per dire "quella originale, non la copia", ma mi fermo. Anche ora, il colonialista britannico sembra essere annientato. «Dall'altra parte del mondo» sorrido imbarazzato.

Vorrei sapere cosa mi è successo, e se ha a che fare con il periodo che ho scordato. Eppure, né Jane né gli altri hanno fatto alcuno sforzo per farmi ricordare il buio degli ultimi mesi. Sembrano tutti ammutoliti e, per qualche motivo, la storia dell'incidente di Ella mi sembra troppo assurda. Un incidente del genere avrebbe dovuto essere nei giornali, ma ho fatto delle ricerche e non ho trovato niente.

Il mio compagno di stanza scuote la testa «Con quella cicatrice, non ti chiameranno mai Patrick, al massimo Frankie».
«Frankie?» non c'è un Frank nei miei nomi, né tra i miei avi.

«Frankenstein» esclama. Però deve aver notato la mia espressione e si corregge «Ti va bene se ti chiamo Frankie?».
Faccio un mezzo sorriso, toccandomi il collo «Non so nemmeno come me lo sono fatto. Mi sono svegliato all'ospedale con questo e con questa». Gli mostro un'altra volta la fede.

Arriccia il naso «Brutta storia davvero. Allora quella la cicatrice te la sei fatto perché sei andato in coma, sì insomma è quella la causa?».
«Non lo so. Non me l'hanno detto» apro la valigia. «Non chiaramente, almeno» mormoro.

«Io sono Theo. Matthew. Senti, ti aspetto in biblioteca. La troverai seguendo le indicazioni, verso est».

In biblioteca ci sono altri ragazzi con Theo. Stanno parlando seduti a un tavolo in legno da dodici persone con dei computer intorno. Non sembra stiano studiando, quanto chiacchierando di frivolezze.
Theo si accorge di me «Ehi Frankie. Questo è Joe. Lui è Luis» indica gli altri. «Sono i nostri vicini di gabinetto».
«Salve, piacere di conoscerti. Joe». si alza un ragazzo castano non molto alto, con gli occhiali.
Uno con i capelli biondi e impomatati alza la mano. «Luis. Pensavamo dovesse arrivare un colonialista spocchioso» mi fa l'occhiolino.

Quelle parole mi infilzano la tempia come un ago. Indietreggio portandomi le mani alla testa. I tre si alzano. «Ehi, tutto bene?»
«Sì, scusate. Mi sono fatto tre mesi di ospedale, ho ancora dei momenti di confusione».
Luis mi fa sedere. «Okay, va tutto bene. Se vuoi riposarti non c'è problema».
«Oddio il problema c'è». Dice Theo.
«Cioè?» domando, massaggiando una tempia.
«Stasera c'è l'iniziazione. Dobbiamo andare al dormitorio della sorellanza».
«Cosa?» pensavo che fossero divisi.

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