1.2 - PATRICK

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«Capisco. Va bene» rispondo alla segretaria ed esco dalla sala d'attesa.

Entro nell'ufficio della signora Johnson. Marmo dappertutto: il pavimento, la scrivania, persino le librerie. Freddo e bianco, che contrasta con i suoi occhi neri.

«Mi ha fatto chiamare?».

Mi fissa e mette i gomiti sulla superficie lucida del tavolo, per poi appoggiare la testa sui palmi delle mani. «Ho un lavoro per te, estivo».

«Per me?».

Si ritira sulla sedia e accavalla le gambe. «Ho chiamato i tuoi, stanno arrivando. Partiamo domani».

«Non capisco. Che tipo di lavoro?». Ho fatto studi classici, ma ero un fallimento.

«Hai detto che vuoi entrare al MIT, no? Telecomunicazioni, elettronica. Quelle cose lì». Sventola la mano, nemmeno parlasse di pettegolezzi da poco conto.

Alzo le spalle. «Sì. Sì, è per questo che ho chiesto la sua raccomandazione».

Alza le sopracciglia «E che hai accettato di sposare Jane».

Faccio un passo indietro. Come negarlo? Mi è sempre piaciuta l'elettronica, ma mia madre ha preferitogli studi classici a Cambridge, e non ero certo una cima. Ho dovuto accettare dei compromessi. Come per esempio, sposare la nipote bigotta di un pastore protestante americano. Ma con tanti soldi e conoscenze da farmi entrare al MIT senza battere ciglio. O quasi.

La donna afferra una penna e la batte ritmicamente sul marmo «Aiuto fonico presso il tour di Damien Lambert». Attende una mia risposta.

«Chi sarebbe?». Non può essere vero che mi parli di tour. Non può mandarmi via con degli zingari. Però, potrei fare ciò che mi piace, dice. Circuiti, collegamenti, elettronica, telecomunicazioni.

«Un piccolo gruppo musicale». Sembra piuttosto elusiva.

Sono scettico «E com'è possibile che accettino me?».

Mi guarda da dietro l'enorme scrivania, dalla sua poltrona in pelle bianca imbottita. Infila la biro nella crocchia di capelli mogano. «Vuoi andare al MIT?»

Annuisco.

«Hai voti pessimi. Lo sai?».

Annuisco di nuovo, umiliato. Sento la pressione della sua autorità anche se non si tratta di una parente.

«Ma mi hanno detto che in elettronica sei bravo, almeno è quello di cui si vanta tuo padre». Alza un sopracciglio.

Annuisco ancora.

«Ho una possibilità per te, per dimostrare che sei davvero valido. Due raccomandazioni in una volta sola. La mia, e di Lambert. Se ci stai, il MIT è tuo. Accetti?».

Posso fare altrimenti? Annuisco per l'ennesima volta.

«La sorella di Lambert, è Anita Mark. Si dà il caso che sia anche la manager e che abbiano bisogno di un tecnico elettronico. Sono disposti a prenderti. Fino a settembre. Tre mesi. Dovrai lavorare per loro. Se diranno che sei valido, ti farò entrare al MIT».

Quindi, dovrò dare il meglio di me, come non ho mai fatto prima.

Annuisco ancora.

Lei mi guarda, sempre fredda e distaccata. La voce non ha inflessioni, sembra di sentire un lettore di Word. «Ti conviene mettere su della parlantina. Non andrai a lavorare con degli sprovveduti. La persona che ti affiancherà ha la terza lingua più lunga che abbia mai sentito. E le prime due erano dei suoi genitori. Non farti impressionare».

Non farti impressionare. Fosse facile.

A Pittsburgh, una delle tappe dei supposti concerti, ad accogliere me e i miei genitori, c'è un uomo di mezz'età, capelli e occhi nero corvino e un accento strano.

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