𝑐𝑎𝑝. 𝟺: 𝑁𝑜𝑛 𝑟𝑖𝑢𝑠𝑐𝑖𝑟𝑒 𝑎 𝑑𝑖𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑛𝑜

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Rimasi tutta la notte chiuso in camera con il computer tra le gambe cercando "sintomi da astinenza da ansiolitici" ed "effetti collaterali dello Xanax."
Ripensai e ripensai a tutti gli atteggiamenti che Kevin aveva avuto con me, e alla fine mi convinsi che fossero effetti collaterali piuttosto che una vera e propria astinenza. Ma non sicuro, continuai a cercare fino a quando non suonò la sveglia del mio cellulare che mi fece capire fosse mattino.

Appena allontanai gli occhi dallo schermo del computer per staccare la sveglia, sentii un una scossa alla tempia, e poi un'altra ancora. Sbuffai innervosito alzandomi dal letto, aprendo le tapparelle per far entrare il sole. Il mal di testa era uno dei dolori che odiavo di più, sapeva mettermi K.O.

Andai in cucina preparando la colazione per me e Hunter - chi si svegliava prima faceva la colazione per entrambi - e prendendo dell'Ibuprofene, mi feci una doccia fredda per risvegliarmi meglio. Cosa che non funzionò.

Riuscii a uscire di casa prima che Hunter si risvegliasse poiché, se mi avesse visto anche solo per un momento mi avrebbe obbligato a rimanere a casa. Si preoccupava troppo.

Il turno era iniziato da un'ora, e cominciai a sentire le spalle pesanti. Non riuscivo a pensare a niente, tra il frastuono dei piatti e la musica in sottofondo; qualsiasi rumore mi recava fastidio.

Non volevo che mio padre o Carol vedessero la mia stanchezza, quindi cercai di rimanere sveglio e allerta. Ma non durò molto, poiché inciampai sui miei stessi piedi cadendo a terra riversandomi le bevande addosso, pur di non sporcare i clienti davanti a me.

Il contatto freddo con il pavimento mi risvegliò, anche se rimasi disteso a terra. Vidi Carol proprio davanti a me, e con sguardo di rimprovero, aiutarmi.

«Potevi anche lasciarmi a terra, era comodo...» borbottai ironico. Lei mi prese le guance guardandomi attentamente.

I suoi occhi da gatta ipnotizzavano qualsiasi persona li guardasse. La gatta nera, la chiamavo io quando ero più piccolo.
Era un'amica di mia madre, lavorava in questo ristorante prima che si conoscessero, e quando chiudemmo lei aspettò che riaprissimo perché, a detta sua, era una donna che "non lascia mai il posto fisso".

«Amos, ti sei drogato?» Mi chiese. Io la guardai sconvolto, poi feci una risatina.

«Non ho dormito, tutto qui... torno a lavoro-» cercai di liberarmi dalla sua presa, ma lei mi strinse le guance più forte.

«Non va bene questo. Hai rotto due bicchieri di vetro e avresti potuto tagliarti, fortunatamente non è successo. Ma sai come la pensa tuo padre, qui si lavora soltanto quando si è a pieno possesso del proprio corpo e della propria mente. Quindi smamma a casa e riposati, oltre che darti una lavata. Stai cominciando a diventare appiccicoso» fece una faccia disgustata e si allontanò da me per entrare all'interno dello sgabuzzino.

Mi grattai la guancia sospirando, cominciando a sentire di profumare di agrumi. Tutti mi stavano guardando, e io sorrisi imbarazzato. Mi scusai con i clienti alla quale avevo rovinato l'aperitivo e tolsi il grosso sul pavimento, per aiutare Carol.

Entrai all'interno dello studio di mio padre per dirgli di lasciarmi tornare a casa anche se non volevo, ma lui mi precedette nel parlare.

«Stavo giusto per venire da te,» disse mentre guardava il computer. Non sapevo mai cosa facesse all'interno dello studio. Il ristorante sarebbe dovuto diventare mio ma non sapevo fare nient'altro che servire, ero curioso di sapere cosa facesse così tanto tempo chiuso lì. Alzò lo sguardo verso di me e aggrottò le sopracciglia. «Cosa ti è successo? Anzi, prima inizio io con cosa devo dirti. È una cosa importante.»

Sospirai sedendomi sulla sedia, a braccia conserte. Non s'interessava mai di cosa mi succedeva.

«Johann Schneider mi ha chiamato chiedendomi se potessi portarti con me in Germania. Sarete soci in futuro, e vorrebbe vedere con i suoi occhi come gestisci un ristorante»

𝐃𝐨𝐩𝐨 𝐚𝐯𝐞𝐫𝐭𝐢 𝐠𝐮𝐚𝐫𝐝𝐚𝐭𝐨Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora