𝑐𝑎𝑝. 𝟷𝟸: 𝐴𝑣𝑟𝑒𝑖 𝑑𝑜𝑣𝑢𝑡𝑜 𝑎𝑠𝑐𝑜𝑙𝑡𝑎𝑟𝑒

120 15 86
                                    

Mi svegliai con la testa che pulsava e un sapore disgustoso in bocca. Aprire gli occhi fu come stare all'inferno. Tutto girava e, in un primo momento, non mi ricordai nemmeno che stessi alloggiando da Johann; mi salii il panico e mi guardai attorno spaesato mentre la testa continuava a pulsare.

«Merda.» Mugugnai quando sentii un conato di vomito attraversare rapidamente la gola. Riuscii ad alzarmi e arrivare di striscio al cestino della carta per vomitare, e appena ebbi finito mi distesi a terra. L'impatto con il pavimento freddo mi fece sussultare, e capii solo in quel momento di essere a petto nudo e con solo i boxer.

Cercai di capire cosa fosse successo, ma non ricordavo nulla. Mi colpii le tempie, per attivare il cervello, ma niente.

«Amos! Geht es dir gut? (Amos! Stai bene?)» La voce preoccupata di Renate, dopo che bussò, mi fece ritornare alla realtà e mi aggrappai al letto, sedendomi lì sopra.

«Bist du aus dem Bett gefallen? (Sei caduto dal letto?)»

«N-no, no...» chiusi nuovamente gli occhi quando una fitta più forte mi attraversò la testa. «Ich... a... habe? Etwas fallen... gelassen?(Mi è caduto qualcosa), hm...» sperai che non mi facesse domande sull'incertezza della mia risposta. Forse avevo anche sbagliato la pronuncia o la sintassi, ma era già tanto che riuscissi a rimanere seduto.

«Okay!» Dal tono non sembrava convinta, ma si allontanò dalla porta e ringraziai l'universo per non averla fatta rimanere.

Rimasi qualche minuto seduto sul letto, a guardare il vuoto e a sperare che la testa passasse da sola, poi presi il cellulare dal comodino e mi alzai dal letto.

Camminai verso il bagno con passi incerti, cercando di non far rumore. Il riflesso nello specchio mi presentò uno sguardo stanco e disordinato: capelli arruffati, occhi arrossati e un'espressione da zombie, la solita che avevo anche quando non dormivo abbastanza.

Mi sciacquai il viso, afferrando a tratti il bordo del lavandino per non cadere a terra per via delle vertigini.
L'acqua fredda mi risvegliò un po', e mi fece ritornare alla realtà. Mi asciugai i capelli e il viso con un asciugamano e quando mi guardai allo specchio, con occhi più attenti, notai dei leggeri lividi sulla clavicola e vicino al collo.

Persi un battito appena capii cosa fossero: succhiotti, morsi. Non sapevo come reagire, cosa fare. Mi tastai i fianchi, scendendo sul sedere sperando che l'unica persona che avesse potuto farmi ciò non fosse andato oltre.

Mi sedetti sul gabinetto, cercando di non scoppiare a piangere dal nervoso, nel mentre che la testa non voleva smettere di farmi male.

Chiamai Hunter sul cellulare, sperando che fosse sveglio o che si risvegliasse: era ancora notte fonda a New York.

Dopo svariate chiamate, finalmente rispose. Lo ritrovai assonnato, con i capelli davanti al viso e con uno sguardo arrabbiato. Addosso teneva il pigiama in pile azzurro con tante nuvolette bianche, che gli avevo regalato per il suo ultimo compleanno. «Che vuoi?» Chiese borbottando. «Mi hai abbandonato stasera! Sono arrabbiato~» sbadigliò, «con te.»

La sua adorabile ira mi fece sorridere. «Mi dispiace non averti avvertito.» Dissi piano, ma lo vidi aggrottare le sopracciglia.

«Dio Amos! Mi hai svegliato per vederti fare i bisogni? No grazie.» Staccò la chiamata senza darmi nemmeno il tempo di spiegare. Rimasi a fissare la schermata della nostra chat, e senza pensarci mi portai le mani ai capelli.

Sentendoli al tatto, capii di non avere i cerotti sulle dita. Non mi fermai comunque, anzi, cominciai a girare delle piccole ciocche tra di esse per scaricare la tensione.

Lo richiamai un'altra volta, e mi rispose mentre si massaggiava il viso. «Chiamami quando finisci, sento la puzza attraverso il cellulare!» Nel mentre si stropicciò anche gli occhi e il telefono gli cadde sulla faccia colpendogli il naso.

𝐃𝐨𝐩𝐨 𝐚𝐯𝐞𝐫𝐭𝐢 𝐠𝐮𝐚𝐫𝐝𝐚𝐭𝐨Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora