Capitolo 25

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Lucrezia

Le luci blu dell'ambulanza mi accecano, cerco di sollevare la testa, senza alcun risultato. Non riesco a muovermi e comincio ad avere paura di avere una lesione midollare. Se dovesse essere così, per me sarebbe la fine: dovrei dire addio a tutti i miei sogni.
A cosa mi sarebbe servito studiare se non avessi potuto reggermi più in piedi?

È proprio vero che ci accorgiamo di essere in salute solo quando essa inizia a venire meno. Quando stiamo bene, diamo tutto per scontato e non ci accorgiamo del grande dono che abbiamo.

E se lo dice un medico, è doppiamente vero, datemi ascolto: mai sottovalutare il fatto di stare bene.
Mai giocare con il proprio corpo.
Mai rischiare di perdere la vita o una parte del corpo o una funzione vitale solo per la propria testardaggine.

Se mi fossi ascoltata di più, se avessi seguito la testa, invece di seguire la mia irruenza, sicuramente adesso non sarei stata in questa situazione: immobile e immersa in un fiume d'acqua.

La pioggia non ha cessato e comincio a sentire freddo. Non è il massimo essere tutta bagnata, sotto la pioggia a dicembre inoltrato.

Sento delle voci attorno a me, ma non riesco a sollevare la testa per vedere chi sono queste persone che si sono fermate per soccorrermi.

Vorrei ringraziarle, ma allo stesso tempo vorrei gridare loro di smetterla di accerchiarmi e di lasciarmi respirare, perché tutto questo trambusto sta per mandarmi in confusione.

Qualcuno mi chiede il nome, forse qualcuno dei sanitari del 118, ma non riesco a pronunciare una parola. Tento di esalare qualche suono, ma non esce nulla. È come se le mie corde vocali si fossero atrofizzate e mi avessero abbandonato proprio nel momento del bisogno.

Poi sento delle mani che mi girano in posizione supina, qualcuno che mi tiene fermo il collo e qualcun altro che mi sgancia il casco. Stanno attuando tutte le manovre necessarie nel caso di un incidente in moto.

Alzo lo sguardo e vedo due occhi neri come la notte più buia che mi fissano senza alcuna emozione.
Vorrei gridare al mondo che ci sono, che sto osservando e capendo ogni loro gesto, ogni loro azione, ma non ci riesco e questo mi fa innervosire.

Mi posizionano la tavola spinale sotto la schiena e poi mi sistemano sulla barella. Quando mi mettono addosso la coperta termica, la mia sensazione di freddo scompare per dare spazio al calore di cui avevo bisogno.

La corsa in ambulanza verso il pronto soccorso più vicino mi fa quasi vomitare a causa della velocità elevata. Qui dentro è un susseguirsi di azioni: mi posizionano un accesso venoso, mi mettono il collare e mi mi somministrano un antidolorifico, anche se in questo momento non sento niente. Non provo dolore, forse è talmente forte da essere impercettibile.

Cosa ho combinato?
Come ho fatto a ritrovarmi in questa situazione?
Quando ho deciso di fare qualcosa senza riflettere?
Perché non ho pensato alle conseguenze?

Stupida Lucrezia!

Al pronto soccorso, mi assegnano un codice rosso, dandomi la conferma che ho qualcosa di grave.

Mi infilano nella TAC, raccomandandomi di stare ferma. << E chi si muove?>> vorrei rispondergli.

Non so quante ore siano passate dal mio incidente, se qualcuno mi stia cercando o se siano preoccupati per me, in attesa, fuori da questo spazio in cui nessuno vorrebbe entrare.

Non appena esco dalla TAC, mi portano in sala rossi e mi collegano ad un monitor per rilevare i miei parametri vitali. Il bip di tutti i monitor presenti in sala, collegati ad altri pazienti, mi infastidisce e, il sentirlo in continuazione, mi fa entrare in un loop in cui alla fine non riesco più a distinguere i suoni reali dai suoni immaginari e mi fa precipitare in un sonno profondo. Il buio mi avvolge e la calma mi accompagna nel mio cammino verso l'ignoto.

Più forte del doloreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora