Capitolo XXV

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Era passato poco più di un mese; avevo passato il test di ammissione per la valutazione delle conoscenze di base alla facoltà di Psicologia e mi ero iscritto. Era da pochi giorni che frequentavo le lezioni ed ero sempre più convinto della mia scelta. Mi sarebbe piaciuto saper capire le persone più a fondo grazie ai gesti o al pensiero. Avrei gradito ancora di più, grazie a ciò che avrei appreso, poter risolvere dei problemi a qualcuno che da solo ne era impossibilitato. La mente umana era una cosa che mi incuriosiva parecchio, inoltre non avrei abbandonato il mio passatempo della lettura e lo avrei utilizzato per mantenermi aggiornato e diventare sempre più professionale. Avevo visto qualche volta Paul che era affaccendato nel trovarsi un lavoro, ma non lo frequentavo così tanto come un tempo. Con Camille, invece, uscivo ogni volta che ne avevo tempo, ma c'era qualcosa che non andava. Dentro di me non percepivo più la stessa attrazione e la stessa estasi di prima quando stavo con lei. Forse perché era passato del tempo e non ero più coinvolto come i primi incontri, eppure, a volte, pensavo che non fossi proprio interessato alla sua presenza. Quando la baciavo non chiudevo gli occhi per assaporare più approfonditamente quel momento, prenderle la mano era un'abitudine e non un gesto piacevole da innamorati, infine l'atto d'amore corporeo non mi trasmetteva passione e non mi provocava i brividi.

Insomma, in amore ero il fantasma di me stesso che non provava sentimenti, non si divertiva e aveva un'immensa paura di avere qualcosa di sbagliato. Non mi spiegavo come facessi ad essere infelice quando avevo una ragazza bellissima, dolce e intelligente che mi apprezzava e voleva stare con me. Sentivo di non darle abbastanza, non tutto quello che meritava; ero in lotta con me stesso perché sarei dovuto essere migliore, comportandomi da vero uomo per conquistarla ancora, trattarla come una principessa e cogliere l'attimo di ogni giorno per amarla di più, eppure tutto ciò non succedeva. Era errato il mio comportamento e mi faceva pensare che stavo solo illudendola perché quello non ero io e, qualsiasi cosa fossi, non ero pienamente disposto nell'accettare la nostra situazione di coppia.

Dopo ore di studio, mi trovavo, la sera, seduto al tavolo della cucina a guardare la tovaglia con sguardo fisso e assente. Avevo i capelli spettinati di chi si era appena svegliato la mattina, avevo i gomiti appoggiati e mi reggevo la fronte con ambe le mani, mentre davo retta a quei pensieri insistenti. Una mano mi toccò la spalla e il mio sguardo si svegliò, passando sulla figura di mia madre. Aveva un'espressione preoccupata, ma comunque un bel sorriso in volto: "Tutto bene, Mathis?" mi chiese.

"Certo" le sorrisi, ma lei si sedette accanto a me, dopo aver guardato in direzione del corridoio, probabilmente, per essere certa che mio padre fosse ancora nel suo studio, e ribatté: "Io non credo. E' da un po' di tempo che sei strano... addirittura un po' triste. Vorrei aiutarti, se potessi esserti utile".

Rimasi così colpito dalle sue parole, pensando che avevo bisogno, in effetti, di un consiglio o di qualcuno con cui parlare. Non volendomi confidare con i miei coetanei, sarebbe stata una buona idea sentire il parere di qualcuno con più esperienza.

"Penso di non apprezzare la relazione che ho con la mia ragazza" dissi.

"Non ne sei innamorato?" mi chiese.

"Sì ne sono innamorato, ma..." conclusi con un "...non lo so", non sapendo cosa avrei potuto dire dopo quel "ma".

"Qualcosa di lei non ti piace? Non si comporta come vorresti?".

"No, lei è perfetta... sono io il problema".

"Allora non ne sei innamorato" mi guardò fisso e disse sottovoce "Oppure sei coinvolto da qualcun altro più di quanto lo sei di lei".

"Non c'è nessun altro" dissi fermamente.

"E quel tuo... ragazzo?".

Sentii che aveva avuto paura a chiedermelo e che fosse sinceramente curiosa sulla faccenda, quindi decisi di raccontarle tutto l'accaduto: "Lui non è mai stato di mio interesse, non siamo mai stati una coppia e sono sempre rimasto etero".

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