Un giorno da leoni.

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/GEN's POV/
Mi risvegliai alla luce di un sottile raggio di sole che si stava insinuando dalla vetrata della mia cucina. Ero seduta, con un braccio che mi copriva il viso, completamente stordita, come se chissà cosa mi avesse schiacciato più e più volte. Fu in quel momento che presi consapevolezza di quello che era accaduto il giorno prima.

Mi toccai il viso, sapeva di umido ed era appiccicaticcio. Le scene della notte precedente ripresero lentamente forma nella mia mente. Avevo pianto come non facevo da anni, avevo versato talmente di quelle lacrime che poi mi ero addormentata per la stanchezza. E mi avevano fatto bene, mi sentivo meglio, mi sembrava di essermi svuotata di un peso, anche se qualcosa era rimasto a fare eco nei miei pensieri ma non volevo dargli ascolto.
Ero una donna forte e lo sarei stata anche quella volta e quelle successive a cui la vita mi avrebbe messa di fronte, perché a quanto pareva il destino aveva deciso di giocare con me. Non l'avrebbe avuta vinta, non ancora almeno.

Caricai la moka e mi diressi in camera. Scelsi un cd dalla pila che Kat mi aveva fatto portare dietro prima di partire per New York. L'assolo iniziale di una canzone spacca timpani invase la casa e, nonostante sin da piccola mi chiedessi cosa Kat ci trovasse di bello in quella musica orribile e priva d'emozioni, in quel momento mi resi conto che in realtà era proprio quello che mi serviva. Mi concentrai sulla canzone, sugli assoli di chitarra che si ripetevano e le urla dei cantanti che rimbombavano dalle casse dello stereo e, con gran sorpresa, riuscii a liberare la mente da qualunque pensiero. Stava funzionando, il ritmo mi aveva invaso la testa, il ritornello era sempre lo stesso e dopo un minuto o due di canzone, ero già in grado di canticchiarne le parole.

Tornai in cucina, dove la moka lanciava sbuffi di caffè pronto sporcando tutto il piano cottura e mi versai il contenuto bollente in una tazza che mi sarei trascinata in giro per la casa.
Anche se avevo sperato con tutta me stessa che fosse un sabato o una domenica, in realtà era un giorno infrasettimanale, e quindi mi sarei dovuta dare una mossa per non fare tardi a lavoro.

Quel giorno mi ero svegliata veramente spossata e senza forze, data la nottata particolare che avevo avuto, eppure sentivo un motore rombarmi dentro, un'inspiegabile energia che mise in moto il mio cervello, nonostante le note di quell'assurdo gruppo musicale lo stessero completamente assordando.

Mi diressi in bagno, il riflesso di me allo specchio era quasi terrificante. Occhiaie, viso stanco e massa informe di capelli era tutto quello che di me lo specchio stava riflettendo. Avevo bisogno di rimettermi a nuovo e sarei partita da una doccia calda.
Spazzolai i denti e raccolsi i capelli in una coda alta. Mai come quella mattina, il trucco si rivelò essere mio fedele compagno e fu capace di darmi un tono.
Ero quasi accettabile ma l'ultima parte l'avrebbero fatta i vestiti e le scarpe.

Scelsi di indossare un abito nero a tubino molto elegante, una giacca rossa e dei decolletè vertiginosi dello stesso colore. Raccolsi la borsa, il cellulare e le chiavi di casa e mi diressi in azienda.

«Buon giorno Tasha, a che ora ho il primo appuntamento?»

«Ciao Gen, devi incontrare il nuovo stagista alle 9».

«Molto bene, finalmente qualche viso nuovo. Quest'azienda avrebbe bisogno di un restauro del personale», devo ammettere che quella battuta fu malvagia ma era ora che i miei colleghi cominciassero a prendermi più sul serio.

«Dimmi qualcosa in più di questo stagista», le chiesi mentre mi aggiravo per i corridoi dell'azienda con passo veloce. Lei quasi faticava a starmi dietro. Ogni tanto salutavo qualche segretaria o qualche collega con un cenno di mano o un sorriso, ma niente di più. Nessuno di loro avrebbe mai più avuto la gentile e disponibile Genevieve Nicholson. Da quel giorno in poi, avrei solamente fatto il mio lavoro, null'altro, quindi mi sarei comportata come dovrebbe fare un vero capo.

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