Quella sera non mi presentai a cena, non avevo voglia di dover parlare con i miei, e loro con mio enorme sollievo, non tentarono di farmi uscire dalla mia stanza.
Sgattaiolai fuori quando ormai tutti erano andati a dormire; mi diressi in cucina e presi un panino che mamma, mossa da compassione, mi aveva lasciato.
Me lo rigirai tra le mani; il pane era morbido e invitante. Mi accorsi di stare morendo di fame.
<<Non riesci a dormire?>> mi domandò una voce alle mie spalle.
Mio fratello era in piedi dietro di me, con solo i boxer addosso.
In quelle vacanze di Natale si era allenato molto e i risultati cominciavano già a vedersi. Osservai la linea asciutta del suo petto pensando che avrebbe fatto colpo su un sacco di ragazze nella nuova città.
Scossi la testa, cominciando a mangiare la mia cena.
<<Nemmeno io.>> disse avvicinandosi a me.
Il mio stomaco gorgogliò, non appena ebbi ingoiato il primo boccone.
<<Hai pianto?>> gli chiesi notando i suoi occhi gonfi.
<<E tu?>> domandò a sua volta, venendo ad abbracciarmi.
Era sempre stato così, quando avevo bisogno di qualcuno, lui era lì per aiutarmi senza che io glielo chiedessi. Ero contenta di averlo come fratello, anche se certe volte avrei desiderato ucciderlo; come quando alle medie aveva detto a tutti chi era il ragazzino che mi piaceva. Non gli avevo parlato più per giorni, ma poi si era scusato venendo da me strisciando.
<<Dai, ce la faremo. Siamo comunque in due, giusto?>>
Annuii.
Mi lasciò andare sistemandomi i capelli rossi dietro le orecchie.
<<E comunque non stavo piangendo, stavo solo facendo la doccia ai miei occhi.>>
Ridacchiò e io pure; poi se ne tornò in camera sua.
Il resto della settimana, la passai a mettere i miei vestiti nelle valigie e ad imballare tutto quello che mi volevo portare oltre oceano.
Ormai rassegnata all'idea di non poter vedere Louis e gli altri della band, il mercoledì ero stata obbligata da mio padre a dare i biglietti a Francesca, che non la smetteva più di gongolare dalla gioia e di dispiacersi del fatto che io non potessi realizzare il mio sogno.
Il tempo che mi rimaneva in Italia lo trascorsi praticamente tutto a casa di Elena che non riusciva ancora a capacitarsi che non saremmo più state nella stessa città e stato.
Senza neanche rendermene conto, mi ero ritrovata il sabato mattina su un taxi stipata sui sedili posteriori tra mio padre e Marco mentre mia mamma si trovava tutta comoda sul sedile anteriore.
Passammo il check-in e dopo qualche ora, ero seduta sulla poltrona dell'aereo che mi avrebbe portata a New York.
Mi guardai intorno: il soffitto era basso e mi dava una fastidiosa sensazione di mancanza d'aria; c'era odore di noccioline e di chiuso.
Avrei tanto voluto scappare, ma ormai ero incastrata in quell'odiosa situazione e tra un mare di borse e borsette.
<<Allora ragazzi, siete eccitati per la partenza? >> ci chiese nostra madre con entusiasmo.
Marco ed io la guardammo come se fosse pazza.
Lei non era mai stata il tipo che ascoltava le nostre preoccupazioni o ragioni, e certe volte faceva la figura della svampita; forse era per questo che mi trovavo molto bene con mio papà che, al contrario, cercava sempre di spronarmi a dare il massimo di me stessa.
Nessuno di noi due le rispose, infilandoci entrambi gli auricolari nelle orecchie.
Feci partire la musica "No Control" a tutto volume, senza preoccuparmi dei possibili danni che da anziana avrei potuto riportare all'udito, come diceva sempre la mamma.
Tirai fuori da una busta marrone, le riviste che avevo comprato all'edicola e mi misi a sfogliarle.
Il sole splendeva alto nel cielo primaverile; nell'aria c'era profumo di fiori e gli uccellini cantavano. Non sapevo con precisione dove mi trovassi, ma questo non importava, perché primo non ero più sul volo per New York, e secondo ero con una persona a cui volevo molto bene.
Sentivo l'aria fresca che mi scompigliava i capelli, mentre l'altalena su cui ero seduta andava avanti e indietro.
<<Ti diverti?>> mi chiese Louis.
Mi girai a guardarlo e annuii contenta, non sapevo come ero potuta arrivare fino a lì in così poco tempo.
Poi tutto ad un tratto, mi ritrovai tra le sue braccia, a osservare le stelle. Era tutto così perfetto, anche troppo.
Louis mi mostrava delle costellazioni di cui non avevo mai sentito parlare e l'unica cosa a cui riuscivo a pensare era che era così sexy sdraiato su una coperta, con il naso rivolto al cielo blu scuro.
Ad un certo punto mi si avvicinò, e io feci lo stesso; stavamo per baciarci ne ero certa. Ero così sicura di me e sapevo, come se stessi seguendo un copione, quello che dovevo fare o che sarebbe accaduto dopo.
Sentii un colpo dietro la schiena.
<<Ahia!>> esclamai notando che il cielo e l'erba erano spariti.
Era come se Louis stesse fluttuando nell'aria.
Poi un altro colpo ancora. Pian piano l'immagine di Louis così vicino al mio naso scomparve, sovrapponendosi a quella di mio fratello, che guardava fuori dal finestrino.
Aprii meglio gli occhi e venni accecata dalle luci al neon sopra di me; quando mi abituai all'illuminazione artificiale e man mano che il mio sogno lasciava spazio alla realtà, mi ricordai dov'ero e dove ero diretta. A quanto pareva mi ero addormentata subito dopo che l'aereo aveva preso quota.
La musica era terminata, e ora gli auricolari stavano nelle mie orecchie senza emettere alcun suono.
Richiusi le palpebre cercando di ritornare nel sogno idilliaco che stavo facendo prima di essere svegliata da qualcosa che mi aveva disturbata, ma per quanto mi sforzassi di riaddormentarmi non ci riuscivo. Rimasi semplicemente seduta a crogiolarmi in quella magnifica sensazione che stavo provando in quel momento.
Un colpo dietro la schiena. Di nuovo!
Mi girai di scatto vero il sedile dietro di me e vidi che un bambino dai capelli mori tutti irti sulla testa continuava a tirare calci sul tessuto immacolato della poltroncina bianca su cui ero seduta.
Lo fulminai con lo sguardo, ma lui per tutta risposta, mi fece vedere la lingua.
Lo avrei di sicuro insultato, se non fosse stato per il fatto che sua madre continuava a guardarmi con fare minaccioso.
Infastidita mi alzai dalla poltrona e decisi di andare in bagno. Non avevo voglia che il buonumore ritrovato mi venisse portato via da un moccioso antipatico.
Attraversai il corridoio tra le due file di passeggeri, e ascoltando di sfuggita qualche pezzo delle loro conversazioni, capii che la maggior parte erano americani che facevano rientro in patria dopo le vacanze invernali.
Ad un certo punto mi sentii come se ci fosse il terremoto.
Impossibile! Non eravamo neanche a terra!
Quando ripresi stabilità, pensai che fosse frutto della mia immaginazione, ma i miei tentativi di autoconvinzione furono interrotti da una turbolenza, molto più forte della prima, che mi fece perdere l'equilibrio e oscillare pericolosamente in direzione di un sedile occupato da un ragazzo.
Per quanto tentai di non cadere cercando di aggrapparmi a qualsiasi appiglio, la forza di gravità ebbe la meglio e finii dritta addosso al ragazzo, che stava dormendo.
Quando gli piombai sulle gambe, lui aprì gi occhi mugugnando qualcosa.
Incrociai il suo sguardo e per un tempo che mi parve infinito, rimasi lì a fissarlo; probabilmente mi prese per un'idiota, ma non riuscivo a non guardare i suoi occhi: erano come quelli di Louis, stesso colore e stessa bellezza.
Quando finalmente riuscii a distogliere lo sguardo da loro, lo guardai meglio accorgendomi che quel ragazzo assomigliava a tutti gli One Direction, come se fosse stato un fratello di tutti e cinque: i capelli erano pettinati come quelli di Niall, solo che erano castani come quelli che Zayn aveva prima di tagliarseli e tingerli di verde, invece che biondi, il fisico era atletico come quello di Harry e il sorriso che gli si era dipinto sul viso, non appena era riuscito a capire cosa ci fosse sopra di lui, era aperto come quello di Liam.
Sbattei più volte le palpebre come per risvegliarmi dai miei pensieri; lì di fronte a me c'era la persona più bella che avessi mai visto.
<<Scusa...cioè sorry...>> gli dissi leggermente confusa.
Mi guardava divertito, e io non riuscii a capire se questo fosse un bene o meno.
<<Non c'è problema!>> mi rassicurò lui, in un inglese con un accento decisamente americano.
Mi sorrise e io feci lo stesso; quando mi accorsi di essere ancora seduta sulle sue gambe, mi alzai di scatto scusandomi di nuovo.
Trovai snervante il fatto che non dicesse nulla stando semplicemente a guardarmi sorridendo. Io non ero brava a parlare con i ragazzi, mi confondevano, non riuscivo mai a capire che cosa significassero i loro gesti, e questo mi faceva sentire vulnerabile.
Cercando di ritrovare la ragione, decisi di andare comunque in bagno in modo che le mie guance tornassero di un colore normale, ma un altro vuoto d'aria ancora più forte dei precedenti, mi fece volare sul sedile di fianco a lui.
Sentii la voce di una hostess che avvisava tutti i passeggeri di rimanere seduti e di allacciarsi le cinture di sicurezza, fino a che l'aereo non avesse attraversato quel tratto di oceano dove solitamente non si viaggia molto tranquillamente.
Le parole successive mi arrivarono alle orecchie come un suono indistinto e confuso. Non riuscivo a muovere un muscolo, ero pietrificata e l'unico rumore che riuscivo a sentire era quello del mio respiro che si faceva sempre più corto e irregolare. Con orrore, mi resi conto che stavo andando in iperventilazione.
Mi era già capitato una volta, quando l'ascensore di casa nostra si era bloccato e io e mio fratello vi eravamo rimasti chiusi dentro.
Solo che in quel momento non c'era Marco ad aiutarmi come quella volta, ma bensì quel ragazzo che non conoscevo e che continuava ad osservarmi.
Frugai con lo sguardo in cerca di qualcosa in cui respirarci dentro, ma non mi venne in mente nulla. Quando cominciai a vedere dei puntini colorati nel mio campo visivo, credetti veramente che sarei svenuta da un momento all'altro.
A un cero punto notai, con la coda dell'occhio, che il ragazzo di fianco a me, frugava nella tasca del sedile davanti a lui, tirandone fuori un sacchetto per il vomito.
"Certo! Ecco cosa posso usare!" riuscii a pensare.
In preda al panico mi avvicinai alla tasca bianca, e con mani tremanti tentai di guardarci dentro.
Con mia sorpresa venni bloccata dal ragazzo che mi posizionò davanti alla bocca il sacchetto di carta, facendomi cenno di fare respiri profondi.
Con la mano libera, si sporse verso di me allacciandomi la cintura.
"Espira, inspira, espira..."
Mano a mano che l'aria ritornava a circolare normalmente nei polmoni ed arrivare al cervello, cominciai a sentirmi subito meglio.
Lui aspettava paziente di vedermi completamente padrona di me stessa. Quando si fu assicurato che ormai non correvo più nessun pericolo, scostò il sacchetto dalle mie labbra e me lo mise in grembo.
Quegli occhi azzurri mi scrutavano aspettandosi che io gli dicessi qualcosa.
<<Grazie...>> farfugliai dopo un po' in inglese.
<<Stai bene?>>
Annuii.
<<Meno male, non avevo voglia di viaggiare con qualcuno che sta male; sono molto influenzabile in questi casi!>> disse scherzando.
Mi misi a ridere, rendendomi conto che oltre ad essere carino era pure spiritoso.
Quando si accorse che stavo veramente bene, si rilassò stendendo le gambe lunghe e presentandosi:<<Io sono Kevin>>
<<Anna>> dissi, tendendo la mano.
Lui me la strinse.
<<Tu non sei americana, vero?>>
<<No...sono italiana>>
<<Vai negli USA per vacanza?>>
<<No, mi trasferisco. Anche se a dire la verità preferirei non andarmene.>>
<<Sono sicuro che ti piacerà. Io ci vivo da sempre e devo dire che non sono cresciuto poi così male>> disse indicandosi con un gesto della mano.
Il mio sguardo indugiò un po' troppo sulla sua camicia nera attillata.
<<Dove ti trasferirai?>> mi domandò dopo un po'.
<<A New York>> gli risposi, alzando di scatto gli occhi, imponendomi di farli rimanere riflessi nei suoi.
<<Anche io vivo lì. Ti assicuro che è una città fantastica>> mi disse tutto eccitato.
<<Anche Venezia lo è, e io avrei preferito non andarmene...>> dichiarai.
In realtà non mi andava molto di parlare con quel tono petulante con gli sconosciuti, ma mi venne spontaneo.
<<La penserei anche io così se mi portassero via da tutto quello che conosco!>>
Mi guardai imbarazzata la punta bianca delle mie Converse. Non sapevo se buttare lì una battuta, o se provare a flirtare con lui, ma non avevo la più pallida idea di come si facesse.
"Dì qualcosa Anna! Qualsiasi cosa!"
Sentivo che lui mi stava guardando, e questo mi mise ancora più in agitazione. Mi passai una mano nei capelli, più per tentare di tranquillizzarmi che per sistemarmeli.
Prima di riuscire a dire qualsiasi cosa, un'altra piccola turbolenza scosse l'aereo e sentii come se il mio stomaco stesse per fare un bel viaggetto sulle montagne russe; strinsi le mani sui braccioli fino a far sbiancare le nocche, come se questo potesse ristabilizzare il volo.
<<Tranquilla, siamo più che a metà del viaggio. Mancano solo quattro ore e poi questo supplizio finirà.>> mi rassicurò stendendosi ancora di più sulla poltroncina.
<<Solo quattro ore?!>> domandai con una punta di isteria:<<Dovrò stare su questo coso ancora per quattro ore?!>>
Mi innervosiva il fatto che lui fosse così rilassato, mentre io stavo rischiando di avere un crollo mentale.
Si girò a guardarmi ridendo e io cedetti, scoppiando a ridere; era così carino che non potevo prendermela con lui per il suo ammirevole autocontrollo.
<<Già, hai ragione, quattro lunghe ore ancora da dover passare con te. Che noia mortale!>>mi disse fingendo di essere al limite dell'esasperazione.
Gli sorrisi mordendomi leggermente il lato del labbro.
Lui tornò a fissare lo schermo spento sulla testiera del sedile davanti; ne osservai i lineamenti, il naso allungato, gli occhi grandi e le labbra piegate sempre a formare un sorriso sfrontato.
<<Ho qualcosa che non va?>> mi chiese dopo un po', girandosi verso di me.
Diventai rossa come un peperone, scuotendo la testa.
<<No...è solo che...che...mi piacciono i tuoi capelli!>>
Mi piacciono i tuoi capelli? Ma che razza di frase è?! Una persona mi sorprende ad osservarlo e io gli dico che mi piace la sua pettinatura?!
Avrei tanto voluto che a scuola insegnassero a parlare con l'altro sesso piuttosto che la letteratura classica.
Alzò un lato della bocca, fino a formare una strana espressione.
<<Si. Pure a me piacciono.>>
Sorrisi.
Incredibilmente, riuscii a superare la timidezza che di solito mi assale in occasioni di questo tipo, e cominciammo a parlare di varie cose che non avevano molta importanza ma che ci faceva piacere sapere l'uno dell'altra; per esempio mi raccontò che in quelle vacanze aveva frequentato un college in Spagna e che per mancanza di voli disponibili, aveva dovuto prendere un aereo per l'Italia e poi per gli USA, gli piaceva leggere e praticare sport.
Lo osservavo parlare, mentre tamburellava con la punta delle dita sul ginocchio.
<<Hai un numero di cellulare?>> mi chiese ad un certo punto.
<<Si, certo che ce l'ho.>> gli risposi:<<Sai anche da noi in Italia usiamo i telefonini.>> continuai ridendo.
Mi fece il verso.
<<Allora mi stavo chiedendo se potevi darmelo, così magari una volta possiamo vederci dato che sono il tuo primo amico di New York.>>
Sentii un sorriso che si allargava sulla mia faccia e le guance che diventavano calde.
Ovviamente non tenni in considerazione l'idea di potergli interessare, sostituendola con la probabilità molto più plausibile, che lui provasse pena per me.
Cominciai a dettargli le cifre, che lui digitò con una velocità impressionante sullo schermo.
<<Ti do anche il mio se vuoi.>>
Annuii, cominciando a tastare le tasche della tuta da ginnastica in cerca del mio smartphone, ricordandomi poi di averlo lasciato nella borsa sul sedile accanto a quello di mia mamma.
Pensai di alzarmi per andare a recuperarlo, ma ero certa che i miei avrebbero cominciato a fare domande a cui io non volevo certo rispondere, dato che ero nella modalità sono-arrabbiata-con-voi-e-con-il-mondo. Così pensai di farmelo scrivere sulla mano, ma si sarebbe di sicuro tolto nel giro di qualche ora.
Sentii scricchiolare il sacchetto di carta sulle mie gambe.
<<Me lo scriveresti qui sopra?>> gli chiesi, tutta contenta di aver trovato una soluzione ai miei problemi.
Kevin lo prese, distendendo le pieghe che si erano formate, per poi cercare una penna nel suo bagaglio a mano.
<<In che quartiere abiterai?>>mi fece dopo un po', ridandomi il pezzo di carta con il suo numero e nome scritti sopra.
Di fianco alla parola "Kevin", aveva disegnato una faccina che sorride, cosa che io trovai molto dolce.
Aveva una scrittura minuta e ordinata.
<<A Manhattan, vicino a Central Parck.>> gli risposi, rendendomi conto di sapere già il mio nuovo indirizzo a memoria.
<<Che coincidenza! Io sulla Quinta Strada. Devi ritenerti fortunata ad avere un "vicino" di casa come me!>> mi disse facendo con le dita il segno delle virgolette.
Grandioso, gli si formavano persino le fossette ai lati della bocca quando sorrideva proprio come Harry!
Mano a mano che prendevamo più confidenza l'uno con l'altra, le nostre risate si facevano più alte e i nostri discorsi più idioti, beccandoci qualche sguardo di disappunto dai passeggeri nelle nostre vicinanze.
"Gentili signori e signore, l'aereo sta per cominciare l'atterraggio all'aeroporto J.F.Kennedy di New York. Vi preghiamo quindi di tornare ai vostri posti e di allacciare le cinture di sicurezza."
Supposi che la voce appartenesse al comandante, che cominciai a maledire insieme alla mia smania di voler tornare in fretta con i piedi per terra.
Non volevo dover salutare Kevin per poi tornare di certo alla vita reale fatta di lunghe giornate a farmi i miei filmini mentali, basati su storie d'amore tra me e ragazzi immaginari. Lui era li ed era reale e...
Mi sentii toccare da qualcuno sul braccio.
Mi girai e mi ritrovai di fronte una hostess con fare scocciato che mi invitava ad andarmene da li.
Non avevo altra scelta a quanto pareva; sbuffai, facendo sollevare un ciuffo rossastro e a malincuore mi alzai.
<<Allora io vado...i miei penseranno che mi sia persa in bagno!>> dissi accennando ad un sorriso.
<<Ci si vede a New York, Anna. E buona fortuna per la tua nuova vita!>>
Lo ringraziai.
"Spero di rivederti presto." pensai. Non ebbi il coraggio di dirlo.
Lo salutai un ultima volta con un gesto della mano, per poi ripercorrere il corridoio in direzione del mio posto.
Qui ritrovai Marco e i miei che stavano sistemando nelle borse i vari oggetti che avevano utilizzato durante il viaggio di dodici ore.
A mia madre cadde un libro con la copertina rossa; glielo raccolsi. Quando si accorse che ero io, si raddrizzò sulla poltrona e mi disse in tono malizioso:<<Non male il ragazzo, come si chiama?>>
Sentii le mie braccia fremere.
<<Mi stavi spiando per caso?!>> le chiesi a mia volta infastidita.
<<No, non lo farei mai. Mi stavo solo assicurando che tu stessi bene.>> mi rispose con fare innocente.
La odiavo quando faceva così, ma decisi di non ribattere.
Scavalcai le borse e mi sistemai sul mio sedile.
Mi misi a guardare fuori dal finestrino, rimanendo senza fiato; nonostante mi costasse ammetterlo, il panorama che c'era là fuori era incredibile: si riuscivano a vedere tutte le luci della città e uno spiazzo d'oceano che mano a mano spariva dietro all'ala dell'aereo.
Controllai l'orologio; segnava le 24.00, ma avendo ancora impostato l'orario italiano, ora in America erano solo le 18.00.
Con una fitta di invidia, mi resi conto che il concerto doveva essere finito e che di sicuro Francesca sarebbe stata tutta contenta in un hotel di lusso di Milano, troppo eccitata per dormire. Al solo pensiero mi venne la nausea.
Cercai di focalizzarmi sul fatto che avevo appena conosciuto un possibile amico, per distrarmi dal senso di vuoto che sentivo nello stomaco, mentre ci avvicinavamo a terra.
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Ore 15.15...Esprimi un desiderio.
Novela Juvenil"Quello che mi preoccupava veramente era come avrei fatto io a sopravvivere in un mondo completamente diverso da quello in cui ero abituata, con nuove persone che parlavano una lingua diversa dalla mia, timida e insicura com'ero. Il fatto era che po...