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Con mio grande sollievo, l'atterraggio non ebbe complicazioni e finì prima che io potessi accorgermene.
Dopo che la voce gutturale di prima, ci ebbe ringraziato per l'ennesima volta, vennero aperti gli sportelli d'uscita.
Mentre tutta la gente si alzava dai loro sedili, lanciai un'occhiata furtiva al posto dov'era seduto il ragazzo One Direction, accorgendomi che però era già vuoto.
Mi chinai per prendere la borsa, andando a sbattere contro il porta bagagli.
Mugugnai qualcosa di incomprensibile, sorprendendomi sempre di più della mia fantastica coordinazione dei movimenti.
Mi affiancai a mio fratello, dirigendoci verso l'uscita.
Venimmo investiti dall'aria gelida di  inizio gennaio.
Mi strinsi nel cappotto, troppo pesante per l'inverno veneziano, quanto leggero per quello di New York.
Ai lati della pista, c'erano ancora dei mucchietti di neve che erano diventati marroni per la polvere e lo smog che circolava.
Ci riversammo su un pulmino che ci portò all'entrata dell'aeroporto. Appena entrata sentii un piacevole calore e un vociare concitato.
Mentre aspettavamo i nostri bagagli, Marco mi si affiancò e con tono sommesso mi chiese che cosa tenevo fra le mani.
Solo in quel momento mi resi conto di tenere stretto a me il sacchetto di carta con sopra il numero di Kevin.
<<Nulla di importante>> mentii, ficcandomelo immediatamente in tasca.
<<Centra il ragazzo con cui stavi parlando sull'aereo, non è così?>> sospirò, facendo sembrare la domanda un'affermazione.
<<Ma che avete tutti oggi?! Improvvisamente vi interessate a quello che faccio?!>> sbottai, agitando le braccia in segno di disappunto. <<No, è solo che è strano vederti parlare con un ragazzo.>>
Mi girai a guardarlo nel modo più cattivo che mi riuscii , per poi sferrargli una manata sul gomito.
<<Ma che ho detto?>> si lamentò lui massaggiandosi il punto colpito.
<<Non ti rispondo neanche!>> chiusi lì la questione.
Afferrai il bagaglio che nel frattempo era arrivato sul nastro trasportatore e, urtando qualche persona, mi diressi verso l'uscita.
Appena uscita vidi un sacco di persone che provenivano da ogni paese inimmaginabile, che parlavano lingue incomprensibili e che avevano vestiti stupendi.
Rimasi a bocca aperta mentre una signora giapponese con addosso un kimono rosa on disegnati sopra dei piccoli fiorellini blumi passava di fianco; aveva le guance rosse e il resto della faccia ricoperta da uno strato di cipria bianca.
<<Pulce!>>
Mi riscossi al richiamo di mio padre.
Gli andai incontro, ignorando dei risolini che si levavano da un capannello di turisti italiani poco distanti da noi.
Non mi piaceva essere chiamata così in pubblico; quel soprannome mi faceva apparire più piccola di quello che già non fossi.
<<Aiutami con i bagagli.>> mi incitò con un cenno della mano.
Sollevai le borse mettendole nel bagagliaio mentre papà teneva aperto lo sportello.
Mia madre e Marco arrivarono subito dopo salendo in auto.
Osservai papà mentre diceva la destinazione al tassista con un americano quasi perfetto.
Mi resi conto di riuscire a capire quasi ogni parola e fui grata del fatto che l'estate scorsa avessi dovuto seguire un corso di inglese.
L'uomo mise in moto l'auto e io mi allacciai la cintura.
Le luci della città scorrevano sotto i miei occhi. Passammo vicino a Central Parck, e in un viale pieno di negozi di marche famose.
Ci fermammo davanti ad una palazzone alto più o meno una decina di piani.
Alzai lo sguardo, mettendomi ad osservare il terrazzo che si intravedeva in cima alla struttura.
Una scalinata portava all'interno dello stabile. Di fianco al portone di ingresso era fermo un portiere in divisa che non appena ci vide ci venne incontro per aiutarci con tutte le nostre cose.
Si presentò con il nome di George dicendoci che ci stava aspettando. Solitamente questa frase viene detta nei film horror subito prima di scoprire di essere arrivati in una casa infestata da fantasmi e forze soprannaturali.
Scacciai il pensiero, infilandomi nell'ascensore che ci portò tutti all'ultimo piano, accorgendomi che ce ne erano 4 in più di quelli che avevo contato all'esterno.
George, che avrà avuto più o meno una ventina d'anni, ci lasciò le chiavi dicendo che se avessimo avuto delle domande, potevamo benissimo chiedere a lui.
Mamma infilò le chiavi nella toppa e con gesto teatrale aprì la porta.
Ci ritrovammo nel salotto più grande che io avessi mai visto, tutto era bianco e sapeva di nuovo.
C'era un camino, una porta finestra da cui si poteva intravedere il balcone, e una scala che portava al piano superiore, dove si trovavano le camere da letto, lo studio di papà e due bagni.
Mi guardai intorno vedendo che si accedeva alla cucina da una porta sul lato della stanza.
Appoggiai il mio bagaglio a terra dirigendomi verso le scale. Arrivai su un pianerottolo da cui si accedeva ad un corridoio.
Mi voltai in direzione della prima stanza, notando che sul battente c'era scritto il mio nome con delle lettere adesive.
Entrai con il timore di trovarci anche li una camera asettica come tutto il resto della casa; con mia grande sorpresa e sollievo, mi ritrovai in una stanza che sembrava appena uscita da una di quelle riviste di architettura: era quadrata, con un letto ad una piazza e mezza con una dozzina i cuscini di ogni forma e colore sopra , appoggiato alla parete lilla; di fronte c'era una scrivania di legno chiaro, con una sedia dello stesso colore, un comò e un armadio. C'erano perfino delle lucine appese sul soffitto sopra il letto.
<<Wow!>> esclamai, avvicinandomi alla finestra che occupava gran parte di un lato della stanza.
Poteva vedere il parco con gli alberi coperti di neve, che li faceva sembrare coperti di zucchero a velo.
<<Ti piace?>> mi chiese una voce alle mie spalle.
Mi girai vedendo mia madre che mi osservava appoggiata allo stipite.
Cercai di mantenere una faccia truce e arrabbiata, ma n fin dei conti questa sorpresa le era venuta bene.
<<E' semplicemente stupenda>> riposi andandola ad abbracciare.
Lei era rigida sotto la mia stretta, ma subito si rilassò solo il poco che bastava per non farmi sentire come se stessi abbracciando un albero.
Mi madre non amava molto le manifestazioni di affetto e in effetti non avevo praticamente mai visto lei e papà baciarsi, abbracciarsi o semplicemente tenersi per mano. Non sapevo il perché di questa sua "ossessione", ma una volta l'avevo sentita dire mentre discuteva di questo argomento con mio padre, che non bisogna insegnarci ad essere troppo aperti verso le persone, e lui per tutta risposta aveva detto che erano tutto sciocchezze.
<<Ora ti lascio sistemare le tue cose>> si sciolse dalla mia stretta.
Annuii e lei uscì, lasciandomi da sola con uno scatolone pieno di cose da dover mettere a posto.
Mi sedetti sul letto, cominciando a saltellarci sopra con il sedere, saggiandone la morbidezza.
La stanza stava cominciando a scaldarsi, così i sfilai il cappotto mettendolo sulla sedia.
Misi una mano nella tasca e tirai fuori il sacchetto che avevo ripiegato con cura. Presi il cellulare ed andai nella rubrica per salvare il numero di Kevin.
Accarezzai le lettere del suo nome, sorridendo tra me e me.
Cominciai a scartabellare tra gli oggetti che avevo li con me: un pigiama nuovo che non avevo mai visto prima di allora, il mio mp3, biancheria intima di ricambio, qualche vestito e un libro.
Li sistemai tutti nel minor tempo possibile perché non vedevo l'ora di andare nel mondo dei sogni.
Quando ebbi finito mi tolsi i vestiti freddi che avevo addosso, e indossai il pigiama; mi stava un po' grande, ma per dormire sarebbe stato perfetto: i pantaloni erano di flanella grigia, mentre la maglia, era di un azzurro chiaro.
Accesi la abajour, spegnendo poi la luce sul soffitto.
Alzai il piumone e mi ci rifugiai sotto, tirandomelo su fin sotto al mento.
Feci un respiro profondo, rendendomi appena conto che cosa mi era appena capitato e cercando di farmi entrare in testa che tutto quello che conoscevo, non ci sarebbe più stato.

Ore 15.15...Esprimi un desiderio.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora