Capitolo 11.

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«Devi venire da me oggi pomeriggio» la implorò Taylor durante la seconda ora, quella di storia. Una delle tre lezioni che le due ragazze condividevano.

L'amica si stava sporgendo sul banco per poterle parlare, la sua voce era un sussurro, per non farsi sentire dalla professoressa.

La loro insegnate era una donna sulla cinquantina, piccola e magra con gli occhi azzurri da gatto. I capelli raccolti e fermati con una matita, gli occhiali le pendevano dal collo, appesi ad una catenella. Luce pensava che le sue lezioni fossero inutili, la donna non faceva altro che sedersi dietro la cattedra e leggere dal libro di testo, completamente incurante dei suo allievi. Nessuno le prestava mai attenzione e molti usavano quell'ora per portare a termini i compiti che non avevano finito, o per ripassare per verifiche e interrogazioni che si sarebbero tenute durante le ore successive.

La ragazza fece mente locale per ricordarsi se aveva qualcosa da fare quel pomeriggio, la risposta era si. L'aspettava un'altra seduta con la sua terapista. La seconda della settimana.

«Non posso» replicò lei, senza staccare gli occhi dal quaderno che aveva davanti. La sera prima si era addormentata mentre faceva i compiti e adesso doveva terminare l'analisi di un sonetto di Shakespeare per il corso di letteratura. «Dopo l'incontro del club di ecologia, devo vedere la dottoressa Wilson».

«Non importa, vieni dopo l'appuntamento» la supplicò ancora, sporgendosi ulteriormente verso di lei per afferrarle una mano. «Luce, ti sto implorando».

I loro occhi si incontrarono e le sembrò che l'amica stesse cercando di trasmetterle un messaggio telepatico. Era una cosa che facevano fin da quando erano piccole, da quando avevano visto gli X- Men, le due si erano convinte che sarebbe stato fortissimo poter comunicare con il pensiero come faceva il dottor Xavier. Così era nato quel loro gesto, quando c'era qualcosa che sentivano di non poter dire, ma che volevano assolutamente comunicare all'altra, si fissavano intensamente negli occhi e cercavano di trasmettersi quel messaggio telepaticamente.

Quando cedette il suo tono era annoiato. «Va bene».

Taylor le rivolse un sorriso a trentadue denti, perfetto per la pubblicità di un dentifricio sbiancante, e le strizzò la mano in segno di gratitudine.  E a Luce sembrò quasi di vederla saltellare sul posto per la gioia, anche se non era certa di poterlo giurare.

Il sole si rifiutava di splendere da giorni. La città era avvolta da una pesante cappa di nuvole e una fitta nebbia avviluppava tutto. Era come se tutta la luce si fosse si prosciugata, e il mondo si fosse tinto di diverse sfumature di grigio.

Guidare con quella nebbia le metteva una strana ansia addosso. Aveva sonno ed era terrorizzata dal rischio di addormentarsi alla guida. Erano giorni che non dormiva davvero, nonostante avesse iniziato a prendere i farmaci che le aveva prescritto la dottoressa Wilson.

Le pillole non sembravano far effetto, o per lo meno non come avrebbero dovuto. L'aiutavano a combattere l'insonnia, questo però non le impediva di avere gli incubi.

Ogni notte nei suoi sogni moriva.

Ogni notte si svegliava in preda al panico, in cerca d'aria.

Anche quella notte si era svegliata di soprassalto, con suo padre seduto accanto a lei sul letto che cercava di calmarla, mentre dalla sua bocca uscivano urla disumane più simili ai lamenti di un'animale ferito in preda all'agonia che a quelli di una persona. Joe aveva preso la figlia tra le braccia e l'aveva stretta a sé per cercare di calmarla. Calde lacrime le avevano rigato il viso mentre ricominciava a respirare. La gola le bruciava per via delle grida di poco prima, mentre si abbandonava contro il petto di suo padre in cerca di conforto. Di rassicurazione.

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