Capitolo 29.

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Invece di salire in casa, Luce entrò nella locanda e si diresse verso l'ufficio di sua madre: era vuoto.
Si guardò intorno, per controllare che non la vedesse nessuno, e si chiuse la porta alle spalle.

Accese il computer portatile che Bonnie usava per gestire la contabilità e le prenotazioni, e vi collegò il cellulare con il cavetto usb. Attese che il computer riconoscesse la periferica, mentre l'ansia crescente la spingeva a strapparsi le pellicine intorno alle unghie, con i denti.

Era un vizio orribile, uno che aveva accantonato crescendo, ma che si era rifatto vivo nell'ultimo periodo.

«Muoviti, stupido computer», lo incitò, piegandosi sulla tastiera per picchiettare contro il mouse.

Il telefono si collegò e si aprì la cartella contenente i file che le interessavano, le foto che aveva scattato solo un'ora prima a casa del detective Lachowski. Uso il cursore per selezionarle tutte, vi cliccò sopra con il tasto destro del mouse e mandò in stampa la serie di immagini e file che aveva raccolto. Mentre la stampante faceva il suo lavoro, dando fondo alle scorte di inchiostro, Luce aprì uno dei cassetti della scrivania e iniziò a cercare tutto ciò di cui aveva bisogno: puntine, pennarelli colorati, post it e una cartina della città, di quelle che venivano date in dotazione ai clienti che volevano visitare Northampton durante il loro soggiorno.

Raccolse tutto l'occorrente e lo infilò in borsa, poi si spostò verso la stampante e riordinò i fogli già pronti.

Erano tanti, pagine di una storia che non aveva ancora una fine.

Carte che raccontavano la vita di vittime che ancora non avevano trovato pace. Ne guardo i visi e lesse i loro nomi, erano solo delle ragazze innocenti. Povere ragazzina che non avevano fatto nulla di male per finire tra le mani di uno psicopatico, che le aveva strappate dalle loro famiglie. Tutte troppo giovani.

Una volta finito, spense il tutto e si premurò di lasciare l'ufficio come l'aveva trovato: in ordine. Non voleva lasciare traccia del suo passaggio, nessuno doveva sapere cosa stava facendo. Aveva già coinvolto Taylor, pur sapendo quanto fosse rischioso, non avrebbe permesso a nessun altro di correre quel pericolo.

Uscì dalla stanza così come vi era entrata, in silenzio e inosservata. Attraversò il corridoio che portava all'ingresso, varcò la porta principale, scese i gradini e aggirò l'edificio guardinga. Alla ricerca di occhi che la studiavano tra le ombre degli alberi, come sempre, non vide nulla.

Salì al piano di sopra e, senza nemmeno togliersi le scarpe, corse in camera sua. Chiuse la porta a chiave e gettò la borsa sul letto.

«Mettiamoci comode», disse rivolta a sé stessa, mentre raccoglieva i capelli in una crocchia scomposta in cima alla testa, e li fermava con un elastico nero che teneva sempre intorno al polso.

Lì dove un tempo aveva tenuto la collana di Sarah, il piccolo ciondolo a forma di chiave di violino che ancora non aveva trovato il tempo, e il coraggio, di restituire al suo ragazzo.

Si cambiò, spogliandosi dei vestiti che aveva indossato quella mattina, per indossare un paio di comodi pantaloni da ginnastica e una vecchia maglietta, appartenente ai tempi delle medie, che le stava ancora.

«Caffeina», proclamò, una volta finito.

Aveva bisogno di caffè, se voleva rimanere sveglia tutta la notte, per svolgere le sue ricerche.

Aveva deciso che dormire era sopravvalutato. Perché spendere tutte quelle ore, indispensabili, a letto a farsi tormentare dagli incubi, quando poteva rimanere sveglia a dare la caccia al demone che abitava la sua città?

Andò in cucina, mise su il caffè e si preparò uno spuntino. Non mangiava nulla da quella mattina ed era consapevole di aver bisogno di energie, se davvero voleva portare a termine il suo compito. Mangiò un panino con dentro dell'insalata di pollo che suo padre doveva aver preparato il giorno prima e, una vota finito, prese la caraffa del caffè e una tazza, e tornò nella sua stanza.

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