4. La prima ora

571 178 50
                                    

Entrò il professore e tutti ci alzammo dando il buongiorno. Lui ricambiò il saluto e poggiò la sua valigetta di pelle blu sulla cattedra. Era un uomo sulla quarantina, vestito in maniera moderna ma elegante. Si scusò per il ritardo dicendo che essendo nuovo non aveva trovato subito l'aula. Fece l'appello e si presentò a sua volta. Il suo nome era Edward Smith. Dato che era la prima lezione in una nuova scuola con una nuova classe non aveva materiale didattico pronto quindi decise di utilizzare l'ora per le presentazioni. Lui era il prof di ingegneria dunque e ci propose di presentarci in maniera seria, come ad un colloquio di lavoro.

I primi volontari parlarono della loro vita: genitori ricchi, famiglie felici, pochi con qualche problema familiare ma da come li raccontavano si capiva che era solo per esser al centro dell'attenzione ed esser compatiti. Smith mi indicò col dito, facendomi alzare. Era il mio turno. Avevo preparato un discorso mentale perfetto, ma in quel momento lo dimenticai.

«Mi chiamo Layla, ho diciott'anni e sono nuova di questa scuola» mi limitai a dire, furono le uniche cose che mi vennero in mente al momento; di certo non avevo voglia di raccontare la vita da depressa che avevo condotto fino a quel momento.

«La sua famiglia? Ha fratelli? Pratica qualche sport?» domandò Smith. Mi aveva presa in contropiede.

«Non ho una famiglia» risposi cercando di mantenere il mio autocontrollo, era falso ma la realtà in fin dei conti era quella: non avevo una famiglia presente e che tenesse a me. Lui alzò un sopracciglio perplesso e diede uno sguardo ad alcuni fogli sulla cattedra.

«Una madre e un padre li ha, hanno firmato queste carte, quindi ritengo che lei mi voglia prendere per i fondelli» mi fulminò con lo sguardo, mi sentivo bruciare dentro soprattutto dopo la risata generale della classe. Mi sentivo male ma il discorso per me non era concluso. Mi ero promessa di cambiare per questo nuovo inizio, di mantenere il mio autocontrollo ma lo avevo già perso.

«Avere una famiglia non significa possedere dei parenti che pretendono da te tutto e che non sono minimamente presenti nella tua vita, che non si preoccupano realmente, che non capiscono quando hai bisogno di loro, che pensano solo a se stessi: questo non si avvicina minimamente al significato concreto di famiglia» risposi arrabbiata, frustrata. Avevo tenuto dentro per troppo tempo queste cose. Mi vergognavo di averle dette così, però. Un silenzio tombale seguì le mie parole.

Presi il mio zaino e uscii dall'aula, non avevo il coraggio di guardare in faccia nessuno. Mi sentivo male. Scesi le scale e andai verso l'esterno. Avevo un passo veloce, come quello di un ladro intento a scappare con la refurtiva. Notai che sul retro dell'istituto vi era una un boschetto. Senza pensarci troppo mi addentrai e mi sedetti ai piedi di un albero.
Ancora una volta ero riuscita a rovinar tutto in una manciata di secondi.

🎀🎀🎀
Nota autrice: commentate e ditemi cosa ne pensate!❤️
Ringrazio tutti i lettori

I need someone who needs me (#Wattys2016)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora