41. Rientro a scuola

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Era il 28 dicembre. Avevo passato i giorni a studiare, ascoltare musica e leggere chiusa nella mia stanza. Avevo persino iniziato a scrivere qualcosa di simile ad un diario, che aggiornavo puntualmente. Mi liberava un po', era come uno sfogo nonostante elogiasse la mia solitudine.

«I dolori del giovane Werther» non era poi così male come romanzo, ero già arrivata alla fine del secondo libro. Non volevo fare paragoni con il mio "vissuto" come di mio solito, perché in sé era un racconto molto triste. Quella storia però, mi faceva ricordare continuamente Steve. Avrei dovuto rivederlo al più presto invece di rimandare continuamente. Presi il cellulare per chiamarlo ma notai di aver finito il credito. Dannata sfortuna.

Era pomeriggio e non ne potevo più di starmene chiusa in casa. Fuori pioveva, ma non m'importava. Adoravo la pioggia, il suo tintinnio, il profumo...tutto. Mia madre era fuori casa dunque non potei prenderle l'auto; a Patrick invece non avrei mai chiesto nulla, quindi non se ne parlava di domandargli l'auto. Presi l'autobus per andare in biblioteca a restituire i libri e far la ricarica al cellulare. Feci tutto ciò che avevo programmato e successivamente uscii ad aspettare il pullman mentre ascoltavo una canzone dal mio iPod. Dal bar difronte alla fermata vedevo uscire varie persone di tutte le età: c'era persino gente sbronza a quell'ora. La cosa peggiore però fu di veder uscire da quel locale Elise e Lucas che ridevano spassionatamente. Cosa ci facevano lì? Perché Lucas si trovava proprio con lei? Che io sapessi nessuno dei due abitava in zona. Quando entrambi mi videro, il sorriso scomparve dalle loro labbra. Stavano per venirmi incontro ma era troppo tardi: le porte dell'autobus si erano chiuse, ed io ero già salita su di esso. Il tempo di prendere un posto a sedere, che Lucas mi stava già chiamando. Rifiutai la chiamata. Non poteva pretendere che io gli rispondessi quando anche lui non lo aveva fatto il giorno precedente e dopo averlo visto insieme con Elise come una coppia felice. Di nuovo la suoneria: rifiutai ancora. Provò un'altra volta e allora spensi il telefono. Sinceramente avevo voglia di sentire la sua voce, di sapere come erano avvenuti i fatti, il motivo perché rideva e si trovava con Elise; ma non gli avrei dato la soddisfazione di rifilarmi una delle sue scuse.

***

Passarono altri dieci giorni e mi trovavo nuovamente a scuola. Avevo chiuso le comunicazioni con tutti, non ne volevo più sapere nulla di niente e nessuno. Dovevo anche cambiare dormitorio, non avrei certamente dormito più nella stessa stanza di Connie, per di più sapendo cosa aveva fatto sul mio letto. Mi ero nel frattempo trovata un lavoro in un locale come cameriera vicino alla scuola, così da potermi permettere di affittare poi un appartamento.
Andai alla prima lezione del giorno, che era letteratura. Si sarebbe certamente parlato del libro che bisognava leggere. Il professore ci salutò cordialmente e iniziò la sua lezione. Ritirò i nostri riassunti e biografie sull'autore, chiedendoci i nostri pensieri riguardo il romanzo.

«Lei, cosa ne pensa? Condivide il parere di Wright?» mi guardai attorno e notai che nell'aula era presente Steve. Quando era arrivato? Che opinione aveva dato?

«La sorte dell'uomo è soffrire fino in fondo, e sorbire fino in fondo il calice della vita? Perché io dovrei mostrarmi forte e dire che è dolce, se anche il Dio del cielo lo sentì troppo amaro per il suo labbro umano?» risposi, citando la prima frase del romanzo che mi era venuta in mente. Ero presa dai miei pensieri e non sapevo di cosa si stesse discutendo.

«Se avessimo il cuore aperto e pronto a godere il bene che Dio ci concede, avremmo certamente forza sufficiente per sopportare il male quando arriva.» rispose Steve, a tono. Stavo per ribattere quando il professore ci fermò. Sapevo alla perfezione a cosa si riferiva quando aveva citato quella frase.

Terminate le ore scolastiche, avevo una trafila di cose da fare che avevo riassunto in una lista:
- Andare in segreteria e cambiare la mia attività extra scolastica se possibile;
- Trovare una sistemazione provvisoria dove passare la notte;
- Cercare un appartamento adatto al mio stipendio (dato che non mi sarei fatta prestare un centesimo
   dalla mia "famiglia")
- Andare al lavoro

Sarei partita subito dal primo punto della lista. Bussai alla porta e attesi che mi facessero entrare. Una donna sulla quarantina, seduta su una poltrona, mi fece accomodare. Le spiegai che desideravo cambiare attività extra scolastica perché quella attuale non mi permetteva di avere i crediti desiderati dato che non avrei potuto partecipare al torneo ed avere la possibilità di una borsa di studio. La signora sembrò comprendermi ma mi informò che era troppo tardi per cambiare attività. Potevo dispensarmi dal fare atletica ma non potevo far parte di un altro club. Aggiunse che avrei potuto avere altri crediti facendo uno stage, ma sia io che lei eravamo consapevoli di quanto fosse complesso trovarne uno subito. Decisi infine di togliermi da atletica, motivando che volevo impegnarmi con lo studio e il lavoro che avrei iniziato di lì a breve.

In realtà lo avevo fatto perché mi ero resa conto che era una perdita di tempo per la squadra e che stavo rovinando le persone accanto a me: ero l'unica ragazza del gruppo e non era di buon occhio. Avevo rovinato un'amicizia e sicuramente a breve anche la stessa squadra se fossi rimasta. Era giusto agire in questo modo e mi domandavo semplicemente perché mi ci fosse voluto così tanto tempo per capirlo. Amavo quello sport e mi faceva stare male l'idea di chiudere quella pagina della mia vita perché era ciò che mi aveva permesso di ridere, sorridere, rialzarmi ed essere più forte sia a livello fisico che mentale; ma era la cosa giusta da fare. Praticare atletica mi permetteva di liberarmi, sfogarmi e magari sarebbe diventato anche qualcosa di più, praticandolo a livello professionistico. Non che sognassi le Olimpiadi, sapevo di non essere così brava ma magari di poter arrivare a livelli più alti di quelli a cui ero in quel momento. Potevo correre, andare in palestra in città ogni qualvolta volevo, ma sapevo che non sarebbe mai stata la stessa cosa. Far parte di una squadra è un esperienza bellissima perché ti permette di crescere, di stare in un gruppo (cosa che per me non era mai successa) e divertirti; ma soprattutto accresce la tua passione. La passione che io avevo sapevo che non si sarebbe mai spenta: mi bastava vedere qualche gara ed ecco che desideravo di buttarmi in pista e sfidare me stessa e gli altri. Ogni giorno invece che diminuire, la mia passione per quello sport che all'età di 13 anni mi aveva salvata, aumentava. La mia ex professoressa di educazione fisica, di cui avevo già parlato, fu colei che mi introdusse in questo sport. All'età di tredici anni ebbi un collasso di autostima, date le prese in giro dei miei compagni a causa del mio fisico (ero in sovrappeso) e la scarsa considerazione che aveva la mia presunta famiglia di me. Non mi voglio soffermare su questo perché al solo ricordo mi si stringe il cuore ma su ciò che accadde quel pomeriggio d'autunno. La professoressa Jones mi parlò in privato dicendomi che aveva visto un potenziale in me nella corsa. Avevo molta resistenza pur essendo "grossa" e si vedeva che ci mettevo molto impegno. Mi disse che aveva notato quanto mi isolassi dagli altri e voleva saperne il motivo. Voleva aiutarmi. Rifiutai subito la sua proposta di fare atletica nel pomeriggio sotto il suo insegnamento ma lei non desistette: non so cosa ci trovasse in me, fatto sta che accettai per sfinimento. Da quel momento mi allenai con lei e presi passione per quello sport, correndo anche quando pioveva, nevicava, faceva freddo. Volevo che la Jones fosse orgogliosa di me e che apprezzasse i miei sforzi. Lei fu come una madre per me: mi spronava a far meglio, mi sgridava se peggioravo o se avevo momenti nei quali dicevo di voler lasciare tutto, di buttarmi sotto un ponte. Ci teneva a me, glielo si leggeva negli occhi. La cosa più importante fu che lei riuscì ad alzare il mio livello di autostima: a quei tempi ero uno straccio e avevo persino accettato l'idea di non piacere agli altri. Mi ripetevo che facevo schifo e dunque mi sembrava normale che nessuno si volesse avvicinare a me, non mi sforzavo più di piacere a qualcuno: mi ero praticamente lasciata andare. Tutto aveva perso importanza, persino il mio futuro. Ma quando lei si mise in testa di aiutarmi e di darmi quell'aiuto morale di cui avevo bisogno, ogni cosa riprese ad averla.

Mi chiedo ancora oggi perché abbia voluto fare questo per me: non lo meritavo, non avevo mai fatto nulla per entrare nelle sue grazie. Non so perché ci tenesse tanto alla mia persona, ma se ora sono sicura di me, di ciò che faccio e sono diventata una persona migliore, é solo grazie a lei e al suo aiuto.

I need someone who needs me (#Wattys2016)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora