17. Capitolo Speciale || Lei

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Drew

Cinque anni prima.

Aspiro il fumo dalla sigaretta e lo rilascio lentamente attraverso le labbra.
«Dovresti smettere di fumare, Andrew» la sua voce mi arriva alle orecchie e mi fa ridere, non solo per quello che dice, ma perché è l'unica che si ostina ad usare il mio nome completo, dice che così è più originale, non ci tiene ad essere come gli altri.
«E tu dovresti smettere di farti usare.»
«Quante volte ti ho detto che lui non mi sta usando?»
«Certo, continua a ripetertelo» butto la sigaretta oltre la ringhiera ed osservo le stelle che brillano sulla città di fronte a noi.
«Sei il peggior migliore amico di tutto l'universo» sbuffa lei, dandomi una pacca su una costola.
«Sono il migliore, e lo sai anche tu» mi vanto con un sorrisetto, facendole alzare gli occhi al cielo.
«Io lo amo.» Sento una stretta al cuore, ma non è affatto una novità. «Lo so.»
«Perché non riesci a fartelo andare giù?»
«Chi? Quell'idiota del tuo fidanzato o il fatto che lo ami? Perché se intendi la seconda, l'ho accettato da un pezzo.» Mi accendo un'altra sigaretta ed osservo il fumo espandersi nel cielo.
«Sei proprio stronzo» dice acida, incrociando le braccia e mettendo in bella mostra il seno. Mi obbligo a distogliere lo sguardo.
«Dico solo la verità» la rimbecco, facendola arrabbiare il doppio.
«Smettila.»
«Ho solo paura che ti stia facendo del male! È lecito?»
«No, perché non lo sta facendo e non lo farebbe mai!» Mi giro a guardarla, e la conosco talmente bene che mi accorgerei lontano un miglio che sta mentendo. «Voglio semplicemente proteggerti.»
«Ed io non voglio essere protetta!»
«Ne hai bisogno.»
«Non ho più sette anni, Drew. Possibile che non riesci ad andare avanti? Sono passati nove anni.»
«Ho visto i lividi» sgancio la bomba, stringendo i denti ed ignorando la sua affermazione. Se solo avessi anche la minima conferma che sia stato quel coglione a farglieli, correrei fino alla stupida palestra in cui si pompa i muscoli e gli spaccherei tutti i denti. Lei non risponde, ma fissa incredula la distesa di grattacieli di fronte a noi.
«Sono caduta. Sono caduta per scendere in acqua, in spiaggia, ed ho sbattuto la schiena.» Se non la conoscessi praticamente da sempre il suo tono di voce sarebbe stato assolutamente convincente, ma purtroppo per lei siamo amici d'infanzia.
«Non mi riferivo a quelli sulla schiena, grazie per l'aggiornamento» dico, stringendo la sigaretta con talmente tanta forza da rischiare di romperla. Lei si irrigidisce, e realizza di essersi fregata da sola. La rabbia che provo in questo momento è devastante.
«Non è stato lui» persiste, non capendo che mi sta solo irritando il triplo.
«Va bene» taglio corto, lanciando anche questa sigaretta oltre la ringhiera.
«Ti faranno una multa.»
Mi chiudo la giacca ed infilo le mani in tasca, girandomi per rientrare in casa.
«Non importa.»

***

Corro senza fermarmi, l'unica cosa che vedo è l'asfalto che scorre rapido sotto le suole delle mie scarpe. Non posso credere di aver aspettato tutto questo tempo, non posso credere di averle dato retta e di essermi lasciato convincere da lei che tutto stesse andando bene. Quando arrivo di fronte alla villetta in pietra fuori dalla città la porta è spalancata. I suoi non ci sono, lo sapevo, eppure non mi sono preoccupato affatto. La macchina di quello stronzo è parcheggiata accanto alle biciclette su cui andavamo da piccoli. Non mi soffermo a riflettere, non c'è tempo, entro rapidamente nella casa in cui ho trascorso la maggior parte della mia infanzia ed attraverso il familiare corridoio, le foto di me e lei da piccoli sono appese al muro come sempre, ma mi sembra tutto completamente fuori posto, mi sento un estraneo in questa casa. Pervade un silenzio inquietante, che non fa altro che alimentare la mia ansia. Salgo le scale a due a due, puntando già la porta in fondo al corridoio. È semiaperta, il buio padroneggia nella stanza, mi avvicino ed accendo la luce. Quello che vedo mi lascia sgomento, mi distrugge e mi sciocca allo stesso tempo. Lei, che è sempre stata bella e solare, tranne negli ultimi tempi, da quando quel coglione è entrato nella sua vita, giace seduta a terra con la testa abbandonata contro il letto. Cado in ginocchio accanto a lei e le stringo una mano. Ha sempre avuto le mani calde, ma ora sono gelide, non sento più le sue dita stringersi morbide alle mie. Non mi capacito di ciò che sto vedendo, non mi capacito del sangue che le sgorga copioso dalla pancia, non mi capacito delle sue labbra sempre sorridenti ora contratte in una smorfia di dolore. Solo quando i suoi occhi, prima vivi e sempre scintillanti di energia, vuoti e distrutti incontrano i miei, mi risveglio da quella specie di sogno, scoprendo che è la realtà ad essere un incubo. Lei non parla, si limita ad alzare lentamente una mano e a poggiarla sulla mia guancia. Un sorriso mite le si dipinge sulle labbra ed i suoi occhi diventano lucidi. Non riesco a fare niente che possa essere lontanamente logico, l'unica cosa che posso fare è carezzarle i capelli negli ultimi istanti della sua vita.
«Avevi ragione» sussurra, le labbra le tremano lievemente e fa fatica a deglutire, la mano premuta sulla pancia. Mi affretto a togliermi la camicia e la premo sulla sua ferita, cercando disperatamente di fermare il sangue. Torno con i piedi per terra solo quando un singhiozzo le lascia le labbra e cerco disperatamente un cellulare, senza mai staccare la mano dal suo stomaco.
«Andrew» la sua voce flebile mi arriva alle orecchie, ma sono completamente nel panico. «Andrew, smettila, non c'è più niente da fare.»
«No!» La disperazione inizia a farsi strada dentro di me, mentre la realtà si fa sempre più vivida ed il mio cervello inizia ad assimilare ciò che sta succedendo.
«Andrew... Andrew, avevi ragione» ripete un'altra volta, ma non la lascio finire e le sollevo la testa, incontrando i suoi occhi.
«Mi dispiace, mi dispiace tanto, avrei dovuto accorgermene.»
«Lo sapevi» sussurra. «Solo che non ti ho permesso di aiutarmi... Dispiace-dispiace a me, Andrew.»
«Io... devo-devo chiamare...» Farfuglio, continuando a percorrere la stanza con lo sguardo alla disperata ricerca di un telefono.
«No» la sua voce è appena un sussurro, inizio a non vederci più a causa delle lacrime. «Resta con me, il taglio è troppo profondo. C'è-c'è un foglio, sulla scrivania, leggilo dopo il mio funerale.» Mi rifiuto di accettarlo, non posso perderla, è la cosa più importante della mia vita. Il dolore che sto provando in questo momento è qualcosa di inspiegabile, parte dal più profondo dello stomaco e ti risale fino in gola, corrodendo tutto ciò che tocca. Non credevo si potesse morire mentre si è ancora vivi, eppure mi sta succedendo proprio in questo momento. «Grazie, Andrew, ti porterò per sempre con me.» Mentre lei chiude gli occhi per l'ultima volta, una parte di me se ne va assieme alla persona più importante della mia vita, e ciò che resta muore lentamente, appassendo dentro di me e depositandosi su ogni mio singolo muscolo, pesa tonnellate e non riesco a scrollarmelo di dosso. Un vuoto immenso spacca il mio cuore e circonda i pezzi, stritolandoli finché non resta altro che polvere. Non sento assolutamente niente, solo un enorme buco nello stomaco. La sua mano scivola lentamente lungo la mia guancia e ricade sul suo stomaco. Lacrime amare mi scorrono sulle guance e ci cadono sopra, mischiandosi al sangue ancora fresco. All'improvviso non ce la faccio più ed indietreggio, strisciando sul pavimento fino a ritrovarmi con le spalle contro l'armadio, quello in cui ci infilavamo da piccoli durante le partite di nascondino, quello contro cui lanciavamo freccette per vedere chi riusciva a colpire il bersaglio che ci avevamo attaccato, quello a cui stavamo appoggiati a tarda notte quando parlavamo dei nostri sogni, quelli che avremmo realizzato insieme. Ora tutto questo è svanito, mi resta solo un'enorme sensazione di vuoto e quella che fino a pochi istanti fa era la luce dei miei occhi ora è solo un cadavere insanguinato che mi fissa. Raccolgo tutto il coraggio di cui dispongo e la sollevo, poggiandola sul letto. Non ho smesso di piangere nemmeno un secondo, vorrei urlare ma non ci riesco, è un dolore che non ho mai provato prima, non è una fitta allo stomaco quando vedi la persona che ti piace assieme a qualcun altro, è una morsa che ti si chiude attorno alle ossa e le stringe finché non si spezzano, una dopo l'altra. Getto un'occhiata alla scrivania ed identifico il foglio di cui parlava, mi avvicino e lo prendo. Realizzo la sua ultima richiesta e lo piego, poi lo infilo nella tasca dei pantaloni. Finalmente trovo il suo dannato cellulare e me lo porto all'orecchio dopo aver composto il numero della persona che più l'amava.
«Tesoro? Va tutto bene?» la voce di sua madre mi riempie le orecchie, rischiando di farmi crollare di nuovo.
«Signora Hale, sono Drew.»
«Cosa succede? Hai una voce strana. Dov'è mia figlia?» Percepisco la preoccupazione nella sua voce, e non trattengo le parole né cerco un modo per far sembrare meno drammatica la cosa, perché non c'è un modo carino per dire ad una madre che sua figlia è stata uccisa con una coltellata nello stomaco.
«Lei non c'è più.»

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