11. Always In My Head

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«Miss Harrison desidera qualcosa da bere?»

«Vorrei un bicchiere di tè al limone per favore».

«Subito».

Qualcosa di fresco era proprio quello che ci voleva per affrontare la montagna di fogli che si schieravano davanti a me. Sospirai a quella triste visione, "come posso leggere tutte queste relazioni in così poco tempo?" mi chiesi afflitta.

Pizzicai un foglio, lo alzai guardandolo torva, e non passò molto, che decisi di rimandare il lavoro a dopo.

Poggiai la testa al comodo sedile rimanendo a guardare il panorama che si stagliava dal finestrino dell'aereo.

Durante questi cinque anni le pianure inglesi mi erano mancate molto, tutto mi sembrava così diverso, come se durante la mia assenza il mondo fosse andato molto più veloce.

"Cinque anni... chissà se è cambiato qualcosa" pensai ricordando i grandi giardini, i lunghi corridoi della villa, la piscina che si vedeva dalla mia camera, la servitù gentile e disponibile.

Nonostante fui elettrizzata dalla decisione di mio padre del tirocinio negli Stati Uniti, avendo una vita tranquilla, non mi abituai velocemente alla dinamicità di quella società.

Ricordo ancora il giorno in cui mi disse che avrei lavorato per lui all'estero: era passata solo una settimana dalla fine dell'ultimo anno scolastico. Impaziente all'idea di poter finalmente uscire con i miei amici e colmare in qualche modo il vuoto dei tanti anni passati come un'eremita, stavo già organizzando una decina di vacanze, quando mi chiamò nel suo studio, «E' arrivato per te il momento di rispettare le mie condizioni, fra un paio di giorni partirai per gli Stati Uniti».

Per qualche secondo rimasi a fissarlo, senza dire una parola, lui alzò un sopracciglio e l'unica cosa che riuscii a dire fu «Che cosa?»

Sospirò puntando gli occhi al soffitto, «L'accordo era che ti avrei permesso di vivere la tua età se tu avessi lavorato per me una volta finiti gli studi. Sai che la nostra azienda ha una fama a livello mondiale, non potrai mai lavorare in modo adeguato senza un briciolo di esperienza... credo che la cosa migliore per te sia quella di andare all'estero, così ho deciso di mandarti per cinque anni negli Stati Uniti, a New York».

«Davvero?»

«Davvero».

Al solo pensiero di andarmene lontana da casa, sentii una strana sensazione che interpretai come un misto tra euforia e timore. Capii che mio padre mi stava dando l'opportunità per dimostrargli di poter contare su di me, e di certo non l'avrei persa.

Mi travolse una strana felicità, sorridendo andai di fronte a lui e mormorai «Grazie».

Continuò a guardarmi serio, «Mi aspetto da te dei risultati degni dell'unica figlia del presidente dell'azienda, Maya. Questa non è una semplice vacanza in America, bensì ciò che ti permetterà di essere la mia erede, quindi ti chiedo di prendere la cosa seriamente e d'impegnarti a fondo».

Ricordo ancora il sollievo che provai nel sapere che mio padre non aveva perso completamente le speranze con me. Inizialmente ero così felice, che pensai che la mia vita da quel momento in poi sarebbe solo migliorata, che finalmente sarei stata libera di essere me stessa e di dimostrargli quanto valevo; ma poi i pensieri caddero sui miei amici, su mia madre, e iniziai a chiedermi se mi sarei sentita sola una volta arrivata dall'altra parte del mondo.

Ero certa che con il trasferimento avrei gettato dietro le spalle le mie abitudini, e soprattutto sapevo che non avrei potuto rivedere le persone che mi erano rimaste nel cuore per la maggior parte del tempo... ma che erano lontane anni luce da me.

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