37. Un'Altra Vita

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«Jayson, vorrei tanto esaudire un tuo desiderio».

Gli occhi di Maya erano splendenti, i capelli fluttuavano delicatamente a causa del vento. «Farò qualsiasi cosa tu desideri, niente ci ostacolerà», la voce era morbida, pura, quasi eterea.

Era bellissima, Jayson continuava a osservarla assorto, come fa un artista che ammira un'opera d'arte.

Indossava un luminoso abito bianco ricoperto di merletto e pietre preziose; ma Maya non splendeva a motivo delle ricche decorazioni, esprimeva sacralità in ogni millimetro del suo essere.

Jayson era estasiato: non solo la ragazza, ma tutto quello che lo circondava sembrava introdurlo in un mondo celestiale, ultraterreno.

«Rispondimi. Non ci rivedremo mai più», le guance di Maya si rigarono di lacrime, «Mi dispiace. È impossibile per noi stare insieme».

Cercò di avvicinarsi a lei, ma sembrava bloccato. Era inchiodato a un pavimento impercettibile e legato a un muro d'aria.

Maya allungò una mano, leggera, facendo muovere lo strascico della manica del suo abito, «Qualsiasi nostro tentativo è sbiadito». Voleva controbattere, urlare, ma non ci riusciva, «Avevi ragione, non siamo capaci ad amare».

«Amore è dolore», il suo volto sembrava di marmo, «Amore è abbandono».

La gola bruciava, raschiava, sarebbe arrivato al punto di rompersi il collo pur di dire qualcosa. Stava per piangere, la frustrazione aveva la meglio su di lui, lo avrebbe fatto cadere.

Cercava tutta la sua forza, ma non la trovò. Implorò con lo sguardo il suo amore, che però era impassibile. Abbassò lo sguardo a terra e vide il suo volto riflesso, rosso per i suoi tentativi disperati. Era terrorizzato. Continuava a spingere con la gola al punto che iniziò a sentire il sapore del sangue, i muscoli erano tanto tesi che tutto il corpo sembrava invaso da crampi.

Non capiva perché Maya restasse immobile. Inconsciamente iniziò a piangere e nonostante gli arti avessero iniziato a cedere, rimaneva in piedi, di fronte a lei, senza dargli un attimo di pace.

La guardava mentre Maya si avvicinò lentamente. Il vestito si muoveva, sembrava fluttuasse in aria, era come una farfalla che batte le sue ali sotto la luce del sole. Non aveva espressione, gli occhi splendenti si opacizzarono in pochi attimi e quando furono vicini al punto da poter percepire i loro respiri, lei gli pose una mano sugli occhi, forzandolo a chiuderli.

***

Jayson spalancò gli occhi. Il minimo sforzo sembrava averlo sfinito.

Era circondato da mura bianche, spoglie e fredde. Nelle narici aveva conficcato il tubo dell'ossigeno, mentre al braccio sinistro la flebo. Si mosse spostando lo sguardo da un angolo all'altro della stanza, che era vuota. Alzò la mano per tirare giù il tubicino, sentiva un grande peso sul petto.

Voleva scendere, ma sembrava immobilizzato, «C'è qualcuno?»

Provò a mettersi seduto nonostante non ce la facesse, «Per favore! C'è qualcuno?»

Poggiò debolmente i gomiti al letto. Era riposato, ma si sentiva stanco. Improvvisamente, iniziò a sentire una strana ansia, il respiro accelerò. «Dov'è Maya?», ormai stava gridando, le forze che sembravano averlo abbandonato stavano emergendo prepotentemente, «Nessuno riesce a sentirmi? Voglio vedere Maya!»

Scoppiò a piangere, le mani sudavano, si era raggomitolato su sé stesso con gli occhi spalancati. La porta si aprì e la madre entrò di corsa, seguita da un uomo che non aveva mai visto. «Jayson calmati», la voce le tremava, «Sei ancora scosso e stanco, devi rimetterti».

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