21. You have to fight

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Era sempre stata una ragazza prevedibile, sotto certi aspetti; lo ammetto. Ma speravo che, dopo il nostro ultimo incontro, fosse cambiato qualcosa in lei e, specialmente, nel suo modo di reagire; che fosse diventata più forte, più determinata, più sicura.

Mi sbagliavo.
Anche questa volta si comportò come sempre: si nascose in camera sua per qualche giorno, uscendo soltanto per mangiare e per andare in bagno; non parlò con nessuno; pianse, urlò; smise anche di farsi la doccia, probabilmente perché temeva sarei ricomparso. E, in effetti, in altre circostanze forse l'avrei anche fatto. Ma quella volta scelsi di non intervenire — almeno non direttamente.

Era già abbastanza terrorizzata per conto suo e — soprattutto — temevo di superare il limite: quella sottile linea invalicabile che ci separava dal momento in cui sarebbe scappata via da me a gambe levate; dall'istante in cui avrebbe cominciato a cercare i suoi stupidi amichetti; da quando avrebbe chiesto loro aiuto.
E io, poi, avrei dovuto ucciderli tutti.

Ma, allo stesso tempo, volevo spingerla fino al punto di rottura: vedere fino a che punto potessi distruggerla, prima che iniziasse a ricomporsi da sola.
In fondo, che saranno mai quattro o cinque cadaveri in più, dopo secoli di massacro?

Comunque sia, per quel suo periodo "di pausa" non le parlai, non le sorrisi, non la seguii in giro per casa. Le feci soltanto un regalo.

Penso fosse il terzo — o forse quarto — giorno della sua reclusione autoimposta quando, tornando in camera sua con un bicchiere di succo di pesca in mano, sentì un rumore di passi sul pavimento in legno. E sua madre era al lavoro.

Si guardò immediatamente intorno, circospetta, strabuzzando gli occhi e cercando un qualsiasi segno della mia presenza. Quando, poi — giusto mentre stava tirando un sospiro di sollievo — vide un piccolo pacchettino celeste appoggiato sul letto ancora disfatto, si sentì mancare.

Barcollò appena, chiudendo gli occhi e rischiando di cadere a terra, inerme. La sua mano destra si fece improvvisamente debole, impotente, e lasciò cadere il bicchiere che stava reggendo, che si infranse in mille pezzi. Il rumore che il vetro provocò quando si ruppe le parve così assordante che le fece accapponare la pelle.

Rimase immobile per qualche istante, titubante. Poi, lentamente — stando attenta a non scivolare e a non farsi del male — mosse un primo passo verso il letto rosa. Poi un secondo, un terzo, un quarto ed eccola lì, con le ginocchia che sfioravano le lenzuola morbide.

Allungò una mano, insicura, e prima di afferrare quello strano regalo respirò profondamente, cercando di calmarsi.

Magari non è suo, si disse, magari mia madre sta cercando di tirarmi su di morale, ma in realtà nemmeno lei credeva ai suoi stessi pensieri, ormai.

Strinse il sottile nastro verde tra il pollice e l'indice, tirandolo appena verso di sé e sciogliendo il fiocco. Poi, con estrema lentezza, sollevò il pacchettino e se lo portò all'altezza del petto, seppur non avvicinandolo troppo al proprio corpo.

Lo aprì, chiudendo gli occhi e trattenendo inconsciamente il respiro, sperando che al suo interno non si trovasse una bomba pronta ad esplodere. E quando, dopo qualche istante di puro silenzio, riaprì gli occhi, credette fosse uno scherzo.

Di fronte a lei, adagiato sopra ad un bigliettino viola, c'era un cellulare nuovo. Nuovissimo, direi. Non avevo badato a spese; non che lo avessi pagato veramente, però.

Lo afferrò e se lo rigirò tra le mani per un po'. Poi lo appoggiò sul materasso e — un pochino più rilassata — si portò il bigliettino colorato davanti agli occhi.

Non rompere anche questo, mi raccomando, lesse.

Pensò che, nonostante anche questa volta non l'avessi firmato, era ovvio che fossi stato io a mandarglielo; se lo aspettava.

Quello che non mi aspettavo io, invece, era che sorridesse. Ma non parlo di un sorriso a trentadue denti, no; un sorrisetto appena accennato, timido, fugace, di cui magari non si accorse nemmeno lei, ma allo stesso tempo contagioso.
E, infatti, da dietro il vetro della sua finestra io sorrisi insieme a lei.

***

Grace, stavolta, sapeva qualcosa in più rispetto a prima — ancora poco, certo, ma pur sempre qualcosa — e non esitò a presentarsi davanti alla porta di casa Martin quando non vide Lydia a scuola per tre giorni consecutivi. Perché questa volta c'era qualcuno che si preoccupava per lei; non era sola. E ciò, ovviamente, mi infastidì parecchio.

Fu la signora Martin a farla entrare e, dopo che la ragazza si fu presentata come la nuova compagna di scuola di sua figlia, salì in fretta le scale e arrivò davanti alla porta della rossa.

«Lydia?» la chiamò, con una mano già appoggiata sulla maniglia. «Posso entrare?»
La banshee non rispose immediatamente e, quando si decise a mugugnare un distratto, Grace era già nella sua stanza.

Si fermò di fronte a lei e la studiò in silenzio. Era seduta ai piedi del suo letto, con i capelli spettinati e senza trucco sul viso.
«Stai bene?» le chiese.
Lydia alzò lo sguardo da terra e lo puntò negli occhi nocciola dell'amica. «Sì» le rispose, con un tono che fece venire i brividi al lupo che la stava fissando. Era piatto, monotono, senza vita; più del solito.

«Lydia, ascolta... io...» balbettò. L'amica la guardò di nuovo, in attesa. Grace si passò una mano tra i capelli e sospirò rumorosamente, cercando le parole giuste da dire.

«Non mi importa se non vuoi dirmi cosa ti sta succedendo» disse infine, «Vorrei saperlo, certo, ma va bene lo stesso. Sono nuova a tutto questo e probabilmente non capirei buona parte del discorso. Capisco che tu non voglia parlarne, davvero. Neanche a me piace raccontare la mia storia.»

«Ma, sul serio, io non ce la faccio più a vederti così. So che potrei peggiorare soltanto le cose dicendoti quello che sto per dirti, ma qualcuno deve essere onesto con te: sembri quasi morta. Sei pallida, passi giornate intere chiuse in casa, spesso ti incanti e fissi il vuoto e — ti giuro — ogni tanto mi fai davvero paura.»

Riprese fiato. «Non so se c'entri quel ragazzo che hai visto nel parcheggio o se sia per Thomas, oppure se sia un effetto collaterale dell'essere... cos'è che sei
«Una banshee» le rispose Lydia in un sussurro, deglutendo con fatica.
«Ecco, una banshee. Non so neanche cosa sia, ma so che a diciassette anni le persone non si comportano come fai tu. O, perlomeno, le persone normali

Fece una pausa e la fissò per qualche istante in silenzio.
Poi, facendo un passo in avanti e afferrandole le mani, riprese: «Io ti voglio bene, Lydia. Te ne voglio sul serio. E credimi, mi fa male vederti così. Non so fino a che punto tutto questo discorso possa aiutarti, ma devo almeno provarci.»

«Non posso fare nulla per tirarti fuori da questa situazione: prima di tutto perché tu non me lo permetti, e poi perché in realtà non saprei neanche da dove cominciare. Perciò ti dico solo questo: reagisci. Se fossi un lupo come me ti direi di ringhiare, ma non lo sei e quindi non avrebbe senso e sarebbe stupido e io sto blaterando.»

Chiuse gli occhi, tentando di recuperare mentalmente il filo del discorso. «Reagisci» le ripeté, poi, quando riuscì finalmente a fare ordine. «Reagisci.»

«Affronta le tue paure, sconfiggile. Trova i tuoi problemi e affrontali di petto, fai di tutto per risolverli. Sai che è l'unica soluzione.»

Lydia era spiazzata.
Sorrise lievemente a Grace e, nonostante avesse la bocca asciutta e una confusione assurda in testa, riuscì a parlare: «Grazie» le disse soltanto, massaggiandosi i polsi. E se lo meritava tutto, quel ringraziamento, perché in quel preciso momento, Lydia capì esattamente cosa avrebbe dovuto fare.

Haunted | Teen Wolf - StydiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora