18. Why are you doing this?

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«Mamma, sono a casa!» urlò Lydia, chiudendosi la porta alle spalle. Nessuno rispose.
Camminò verso la cucina, lanciando distrattamente la borsa sul divano durante il tragitto. Vide un foglietto verde attaccato al frigorifero.

Sono andata a casa di Cathie ad aiutarla con il trasloco. Non so quando tornerò.
Ti ho lasciato la cena in frigo, chiamami se hai bisogno.
Mamma

Sbuffò sonoramente, accartocciando il bigliettino e lasciandolo cadere per terra.
«Fantastico» disse ad alta voce, senza un apparente motivo. «Ancora una volta sola.»

Tirò quindi il telefono fuori dalla tasca e, salendo le scale con lentezza, scrisse un messaggio a Grace per dirle che era arrivata a casa sana e salva. Aveva insistito tanto perché lo facesse.

Quando entrò finalmente in camera sua, però, mi vide. Si fermò immediatamente, smettendo anche di respirare.

Ero seduto sul suo letto, con il busto piegato in avanti e i gomiti poggiati sulle ginocchia; il mio sguardo era fisso su un punto indefinito di fronte a me, mentre con la coda dell'occhio osservavo la rossa immobile sulla soglia.

Deglutì sonoramente.
Strofinai le mani tra loro. «Sono ore che ti aspetto.»

Lei, nonostante fosse tremendamente spaventata, ebbe la forza di inarcare un sopracciglio e di guardarmi con sufficienza.
«Tu non dovresti essere qui» dichiarò, modulando la voce in modo da sembrare più convincente.
Abbozzai un sorriso, addrizzando la schiena. «Io devo proteggerti, Lydia» le ricordai per la millesima volta, girando la testa verso di lei. «Il mio compito è starti accanto in ogni istante.»

Tremò.
«Non devi farlo» balbettò. «Non... non sono in pericolo.»
Mi misi in piedi. «Non mi fido di quella ragazza» dissi, avvicinandomi a lei passo dopo passo. «Di Grace

Lei tentò di dire qualcosa, aprendo appena la bocca, ma io la bloccai subito. Portai un dito alle sue labbra, dolcemente, e le feci segno di stare zitta. Ammutolì all'istante.

«Un lupo mannaro» borbottai. «E per di più orfana e in cerca di vendetta. Che combinazione poco rassicurante.»
«Lei non mi farebbe nulla» replicò, puntando i suoi occhi nei miei.

«Tu credi che non ti farebbe del male» puntualizzai. «Ma cosa succederebbe se durante una luna piena si trasformasse e perdesse il controllo? Eh? O se non fosse quel che dice di essere?»

Lydia scosse la testa.
«Non puoi fidarti di lei» continuai, ignorandola. «Voglio che tu le stia lontana.»

Lei spalancò la bocca. Le sue guance si tinsero velocemente di rosso, sicuramente più per rabbia che per imbarazzo. Non l'avevo mai vista arrabbiarsi; non con me, almeno.
«Tu non puoi dirmi cosa fare» si impose. «Non puoi» ripeté sottovoce, incredula.

«Sai che posso» replicai soltanto. «E soprattutto sai che posso intervenire, in alcune situazioni» continuai.
Lei sollevò lo sguardo verso di me, confusa. «Come con Thomas» bisbigliai, sorridendo malignamente.

I suoi occhi si fecero velocemente lucidi, mentre sul suo viso si formava un'espressione di puro disgusto. «Sei un mostro» sputò, allontanandosi da me di un passo. «Soltanto un mostro.»

Le impedii, però, di darmi le spalle e di andarsene. Afferrai il suo polso destro con forza e la costrinsi a girarsi, attirandola a me.
Uno smorfia di dolore si fece spazio sulle sue labbra per un istante.

«Puoi pensare quello che vuoi di me» dissi, avvicinando il mio viso al suo con lentezza. «Ma io non lascerò che tu ti faccia del male e, specialmente, non permetterò che uno stupidissimo lupo mannaro che non sa neanche tenere a posto gli artigli ti porti via da me.»

Si liberò dalla mia presa con uno strattone. «Tu devi starmi lontano» affermò, guardandomi con odio. I suoi occhi verdi — illuminati da uno dei leggeri raggi di sole rossi che entravano dalla finestra, tingendo la stanza dei colori del tramonto — riuscirono a sostenere senza difficoltà il mio sguardo severo.
«Non vuoi proprio capire» sibilai. «Io non posso stare lontano da te!» urlai.

Lydia mi guardò confusa, dischiudendo appena le labbra rosse e allontanandosi impercettibilmente, mentre abbassava con calma il braccio che ancora stringevo. La lasciai andare.

«Che intendi dire?» bisbigliò.
«Io ho bisogno di vederti in ogni istante della mia giornata» iniziai. «Ho bisogno di seguirti ovunque tu vada, ho bisogno di guardarti mentre dormi, ho bisogno di parlarti. È come respirare, per me.»

«Questa non è una risposta, è una malattia» replicò immediatamente. «Voglio una motivazione. Perché fai tutto questo?»
«Non c'è un motivo» risposi.
Lei corrugò la fronte. «C'è sempre un motivo.»

Fece un leggero passo verso di me, insicura. «È così e basta» affermai semplicemente, ormai a corto di parole.
Poi scappai.

***

Da quante notti non dormiva?
Quattro, cinque? Una settimana? No, erano molte di più.

Aveva perso il conto, ormai. Il non chiudere occhio era diventato la norma per lei. Le poche volte in cui era riuscita a riposarsi per qualche ora — senza svegliarsi di soprassalto in preda all'ansia — erano avvenimenti degni di nota.

Quella notte non fece eccezione.
Ma, stranamente, il suo sonno non venne disturbato da me; non fu colpa della nostra discussione e non ebbe neanche la sensazione di essere osservata.

Furono incubi, più che altro. Continue immagini di morte, distruzione e tristezza, senza interruzioni.
La cosa che la spaventò di più, però, e che più di una volta la fece svegliare urlando disperata, fu un'altra: si sentiva come se stesse venendo bruciata viva. Letteralmente.

Intorno a lei c'erano fiamme ovunque, di ogni colore, forma e dimensione. Alcune non bruciavano nemmeno e, anzi, erano quasi piacevoli al tatto; altre, però, parevano provenire direttamente dall'inferno.

Il dolore si propagava nel suo corpo velocemente, come se questo fosse stato trafitto da mille spade in un solo istante. Ma, quando abbassava lo sguardo sul suo stomaco e sulle sue braccia — aspettandosi di vedere il suo pigiama bianco macchiato di sangue scuro —, vedeva che tutto era intatto: i suoi vestiti, la sua pelle delicata, addirittura le unghie smaltate di blu.

Ma il dolore persisteva. Ogni volta era più forte e più intenso della precedente.

Pensò che se avesse dovuto descrivere la morte con una sensazione, sarebbe stata quella.

Quando si svegliò — per modo di dire — la mattina dopo era madida di sudore. Saranno state le sei. Nonostante non avesse scuola quel giorno, non rimase a letto sotto le coperte; no. Non avrebbe potuto farlo neanche se avesse voluto: le sue visioni non l'avevano ancora abbandonata e, ovviamente, neanche le fitte di dolore che le avevano tenuto compagnia dalla sera prima.

Si diresse velocemente, correndo quasi, in bagno, spogliandosi in fretta e furia ed entrando nella doccia. Lasciò che l'acqua gelida le scorresse addosso, nel disperato tentativo di liberarsi di quella tortura infernale.

Ma, dopo venti minuti abbondanti, era cambiato davvero poco. Gli spasmi si erano solo attenuati leggermente e, adesso, erano più sporadici, ma le voci erano ancora forti come prima.

Cercò quindi a tentoni l'asciugamano alla destra della doccia e, uscendo, se lo mise addosso. Ritornò in camera sua, mentre i capelli ancora fradici gocciolavano sul pavimento del corridoio.

Ma, dopo aver aperto la porta e aver mosso qualche passo distratto nella stanza, mi notò, nello stessa posizione in cui ero il giorno precedente. E le urla scomparvero.

Haunted | Teen Wolf - StydiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora