23. Death sentence

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Erano passati ormai tre lunghissimi giorni dal nostro ultimo incontro, ma i suoi dubbi non volevano saperne di andarsene. Anzi, probabilmente era ancora più confusa di prima — a patto che sia possibile, per un qualunque essere umano, raggiungere un tale livello di ansia e di incertezza. Ma lei, in fondo, non era un qualunque essere umano, no? Era speciale, e lo sapeva benissimo.

Aveva pensato più volte di chiamare Scott — forse più per dimostrarmi di essermi sbagliato che per altro —, ma aveva presto scartato l'idea: non voleva mettere in pericolo nessun altro.
Non sapeva che questo sarebbe successo comunque, prima o poi, presto o tardi: non poteva evitarlo, ormai.

Quindi, in quel martedì pomeriggio, dopo una giornata particolarmente noiosa di scuola, si ritrovò sola con i suoi pensieri nella sua stanza — cosa che, ultimamente, aveva cercato di evitare in ogni maniera possibile.

Sapeva che non ne sarebbe mai uscita illesa, se avesse continuato così. Pensava che se non l'avessi uccisa io, sarebbe morta di infarto, prima o poi.
L'unica soluzione era parlarne con qualcuno, ma era rischioso; rischiosissimo. Così pericoloso che il solo pensiero riusciva a farla rabbrividire.

Ma le voci nella sua testa — le urla — che la tormentavano da settimane erano diventate troppo insistenti e troppo forti per poterle ignorare. Aveva come l'impressione che le sarebbe scoppiato il cervello, se non avesse fatto nulla per mandarle via.

Erano stati, come ho già detto, tre lunghissimi giorni fatti di cattive e di buone idee e di ripensamenti. Ma alla fine, dopo aver passato due o forse tre ore a camminare avanti e indietro per la sua camera dalle pareti rosa — con le braccia dietro la schiena e le lacrime che ogni tanto le rigavano le guance, solitarie —, prese quella che si rivelò una delle peggiori decisioni della sua vita: ho bisogno di te, scrisse a Grace in un messaggio. E con il successivo sto arrivando che la rossa ricevette in risposta, tutti loro firmarono la loro condanna a morte.

***

«Lydia, che cosa volevi dirmi?» chiese per la quarta volta Grace, esasperata. Guardò speranzosa la ragazza in piedi davanti a lei che si stava torturando le mani da circa venti minuti, ma non ottenne una risposta.
Si strofinò gli occhi con una mano, stanca. «È così difficile?»

Lydia alzò gli occhi dal pavimento e li puntò sul viso dell'amica, risultando più dura del previsto. «Sì» rispose, glaciale.

La mora seduta sul letto addrizzò la schiena e sostenne lo sguardo senza difficoltà. «Di cosa hai paura?» replicò.

La banshee non fiatò. Continuarono a fissarsi per qualche altro secondo interminabile, immobili, come se fosse una sfida. Poi, sospirando, Lydia mandò tutto al diavolo. Peggio di così non potrebbe andare, pensò.

Si sedette accanto a Grace e prese un ultimo respiro profondo, cercando di rallentare il battito cardiaco. Ogni fibra del suo corpo le diceva di non farlo, di stare zitta e di non rovinare tutto e tutti, ma ormai il danno era fatto.

«Non ho ancora ben capito cosa sono» iniziò, mordicchiandosi il labbro inferiore. «In realtà nessuno di noi l'ha capito. Perciò ti dirò soltanto quel poco che so.»
Fece una breve pausa, chiedendosi per la milionesima volta se fosse la cosa giusta da fare.

No, Lydia. Non lo è affatto.

Poi riprese: «Sono una banshee, una messaggera della morte — e te lo assicuro: è esattamente rassicurante come sembra. Ogni volta che qualcuno intorno a me è in pericolo sento delle voci nella mia testa, delle urla. Mi dicono il loro nome, dove sono, cosa gli sta succedendo; poi mi portano fino al loro cadavere.»

Haunted | Teen Wolf - StydiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora