14. Love needs no words (part 2)

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Una nuova occhiata nello specchio gli rimandò l'immagine di sé che Marlene aveva avuto davanti fino a prima di uscire dal bagno, quella di un uomo patetico, per come la vedeva lei, che non era capace di tenersi l'uccello nei pantaloni e, a detta dei vestiti che aveva addosso, nemmeno di ricomporsi dopo averlo rimesso in gabbia.

«Porca puttana» emise in un sussurro, slacciando quella cintura a malapena agganciata e poi i bottoni dei jeans con l'intento di sistemare meglio la camicia all'interno di essi e, finalmente, rendersi presentabile. Quando si era reso conto che lo stava osservando al di là della tenda, non aveva potuto fare altro che mollare tutto e correre da lei, come se niente potesse essere più importante di Marlene, come se lei stessa avesse, con la sua sola presenza, eclissato ogni cosa intorno a lui, attirandolo a sé. Patetico. Si sentiva esattamente così, ma nel senso più negativo del termine, quello che gli faceva montare addosso la rabbia, che gli faceva maledire, ormai ogni giorno di più, quello in cui l'aveva incontrata.

Si lasciò alle spalle la toilette e tornò al piano di sopra. L'ultima cosa che si sarebbe aspettato quella sera era di vederla anche lì, in quel posto che con lei non c'entrava nulla. Sorrise appena, sistemandosi su uno degli sgabelli del bar, mentre col pensiero era ancora insieme a Marlene, mentre negli occhi aveva ancora l'immagine di lei appoggiata ai lavandini, quel suo vestito azzurro dal taglio casto che la faceva assomigliare a una studentessa al ballo della scuola, una di quelle che finivano la serata col trucco sciolto a maledire lo stronzo che le aveva accompagnate e che, alla fine, si era ubriacato e portato a letto la troia di turno.

La mora e la rossa gli passarono accanto affermando all'unisono che era proprio uno stronzo e lui si ritrovò a scuotere la testa e a sorridere ancora divertito. Come volevasi dimostrare.

«Ecco a te!»

La voce del barista lo indusse ad accantonare, per un istante, i pensieri in cui la sua mente si era immersa. Avvicinò il bicchiere alle labbra e mandò giù un sorso di gin che, per poco, non gli andò di traverso. Si sporse appena all'indietro per ottenere una visuale migliore, quindi inarcò un sopracciglio: le sorprese, a quanto pareva, non erano ancora finite.

Buttò giù in fretta il resto del drink e si alzò dallo sgabello, poi raggiunse i salottini privati e, per la precisione, quello in cui c'era Andrew. Si fermò proprio davanti a suo cugino e la compagnia poco raccomandabile che aveva intorno: il ragazzo era seduto sul divano, in mezzo a due donne, due prostitute di lusso, che sorseggiavano un costoso champagne e, su quello di fronte a lui, c'era un uomo sulla cinquantina che fumava il sigaro. Julian lo riconobbe anche se gli dava le spalle, poi i suoi occhi incontrarono quelli di un altro uomo, più giovane e con un paio di cicatrici sul volto, che sostava a braccia conserte poco distante dal resto dei presenti. Questo gli si avvicinò e gli chiese, con aria piuttosto seccata, se avesse bisogno di qualcosa. Fu in quel momento che Andrew si accorse della sua presenza e, visibilmente in imbarazzo, parlò all'uomo seduto di fronte a lui, prima di alzarsi dal divano e raggiungere il cugino. Prese Julian per un gomito e lo condusse in disparte.

«Che ci fai qui?»

«Io? Che cazzo ci fai tu, qui, con quello!?»

«Lavoro!»

Julian rese il suo sguardo sottile. «Lavori? In un locale notturno, con la faccia dentro due paia di tette?»

«È stato Lombardi a insistere perché ci vedessimo qui.»

«Lombardi, già. Non ci posso credere! Adesso accetti incarichi anche dalla malavita?»

Andrew lo fulminò con lo sguardo, poi gli si fece ancora più vicino. «Credi che abbia avuto scelta? Quell'uomo va in giro con una Smith & Wesson nascosta sotto la giacca e le sue non sono richieste ma ordini!» esclamò tra i denti. «Tu avresti le palle per dirgli di no?»

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