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Quand'ero piccola, ero convinta che dormire fosse una gran perdita di tempo, un inutile modo di far scorrere la vita senza viverla davvero. Mi immaginavo la notte come un brutto ladro vestito di nero che inghiottiva chiunque chiudesse gli occhi anche solo per un istante. Mi sforzavo quindi di rimanere sveglia, per non farmi acchiappare da quel brutto furfante ruba ore.

Non potendo uscire dal letto, perché, volente o no, i miei genitori mi obbligavano a rimanere, pensavo. Pensavo alla giornata appena trascorsa, alle persone che avevo incontrato, alle emozioni vissute, e cercavo di imprimere nella mia mente quanti più attimi possibili, avida di poter ricordare, di poter catturare ogni istante di vita.

E non ne avevo mai abbastanza, io, della vita. Mi sembrava tutto stupendo: ogni respiro, ogni sorriso, ogni riflesso. Ogni cosa pareva degna del mio stupore.

Tante volte mi soffermavo a guardare ciò che c'era intorno a me e mi incantavo ad osservare l'oggetto che aveva suscitato il mio interesse per tempi indecifrabili. Cose del tutto normali – come il vapore prodotto dal tè caldo appena versato nella tazza; oppure i rivoli d'acqua disegnati sul finestrino della macchina in corsa dall'unione della pioggia e del vento; o ancora quei disegni che la luce ti imprime negli occhi e vanno via via scomparendo quando li chiudi e stringi le palpebre – acquistavano nella mia mente significati cosmici.

Guardavo ogni cosa con occhi affamati, prestando attenzione a qualsiasi movimento o variazione, cercando di imprimere nella mente tutte le figure che mi si stagliavano negli occhi. Dio, quanto amavo la vita.

Ero una personcina mattiniera, da piccola. Non usavo sveglie, era il mio stesso corpo che, accarezzato dalle prime luci del mattino, quasi automaticamente mi tirava su.

Appena alle sette del mattino, avevo già una gran parlantina! Non ricordo di cosa parlassi, ma – di fronte alla tazza di latte, con il viso dei miei genitori ancora coperto dal sonno – non ero mai priva di argomenti di conversazione. Loro si sforzavano di ascoltarmi e ogni tanto riuscivano ad emettere un: «Mmmh».

Ricordo che, una volta, svegliatami stranamente più tardi del solito, sobbalzai fuori dalle coperte e, quasi correndo, mi presentai tutta impettita da mia madre rimproverandola: «Mamma! Ma perché non mi hai svegliata?!».

Lei – con quei modi che ora mi mancano così tanto – semplicemente mi guardò sorridendo, si avvicinò a me per baciarmi teneramente la fronte e, sollevandomi il mento fra indice e pollice mi disse: «Amore, ma sono appena le otto! E oggi non devi andare a scuola».

«Le otto e sette, mamma. Le otto e sette», la corressi io guardandola severamente.

In quel momento, fui presa dalla consapevolezza che quell'ora e sette minuti erano ormai persi, e non sarebbero tornati. Mai più.

Cercai di fare colazione il più veloce possibile per cercare di risparmiare più secondi possibili. Risparmiarli per che cosa, poi, non lo so... Ero una bambina!

Non avevo un granché da fare: andavo a scuola; facevo i compiti e, sì, c'era il corso di danza che seguivo con molta dedizione (tutti i giorni dispari della settimana non vedevo l'ora che fosse o martedì o giovedì, per poter indossare nuovamente il mio body rosa e le scarpette).

Per il resto, passavo le mie ore libere al parco, oppure disegnando o leggendo.

Delle volte semplicemente pensavo: fantasticavo, progettavo e pianificavo un futuro che non è mai esistito. Non fuori da quelle pagine bianche almeno.

Io sarei cresciuta, diventando una scrittrice o un'artista, e mi sarei sposata a ventiquattro anni; avrei poi avuto tre meravigliosi bambini, John, Michael e Wendy.

La Bella Addormentata Non Si Sveglia Più [COMPLETA]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora