L'odio non cessa con l'odio.
In nessun tempo.
L'odio cessa con l'amore
e questa,
è la legge eterna.
(Buddha)Isaac
Mi tremavano le mani.
Le vene pulsavano, cariche di rabbia.
Cariche di odio.Respira.
Colpisci.
Espira.Respira.
Distruggi,
annienta.
Espira.Quelle, erano le uniche parole che sfioravano la mia mente
Sentivo l'irregolarità presente nel mio battito cardiaco, in netto disaccordo con il mio respiro tremendamente affannoso. Cercai - con ardua difficoltà - di far entrare, all'interno dei miei trasandati polmoni, una quantità necessaria di ossigeno. Nonostante fossero completamente rovinati, a causa della nube creata dal fumo delle mie - oramai complici - sigarette.
Continuavo ad eseguire, con le dita chiuse in un pugno stretto, traiettorie perfette lungo il volto del ragazzo che - minuti prima - mi aveva dato del figlio di puttana.
Ero perfettamente a conoscenza del quale glorioso titolo si portasse appresso, la donna che mi aveva messo al mondo. Chiamarla una poco di buono, risultava essere definito addirittura un complimento.
L'unica persona la quale poteva permettersi il lusso di giudicarla, non ero io, ma Dio.
E qui, in mezzo a tutti questi volti muti e senza nomi, non vedevo nessun Dio.E nel momento in cui guardai attentamente il colore di un rosso accesso, appartenente al sangue del ragazzo scendere interrottamente dal naso, mi ricordai del sangue che mia madre mi aveva fatto collare - durante gli anni di infanzia - dal mio corpo.
Mi ricordavo perfettamente tutte le volte in cui mi aveva alzato le mani, piccole e incallite.
Quelle volte in cui mi aveva trascinato per i capelli - lungo la superficie fredda delle piastrelle bianche del pavimento - facendomi andare incontro al muro, oramai privo di pittura, con la testa.Mi ricordavo delle volte in cui mi urlava ogni singolo giorno: "Sei venuto al mondo solo per rovinarmi la vita!" Accompagnando le parole con i calci, che riuscivano a farmi cadere a terra in preda al dolore.
E mi ricordo tutt'ora delle sue unghie mal curate, intenta a conficarmele sulle guance - arrossate dal freddo - per farla guardare negli occhi, che all'interno di quelle iridi - identiche alle mie - contenevano solamente il sentimento pari all'odio nei miei confronti.
Non avevo deciso io di venire al mondo.
La colpa non era mia se si era fatta scopare da un ubriacone, ad una festa per single.
Avrei solamente voluto vivere le mie giornate come ogni bambino normale, giocando a pallone con gli amici nel giardino e prendendo un gelato insieme alla mia famiglia.
Ero un bambino, che desiderava un amore incondizionato di una madre, che non mi aveva mai voluto.
Purtroppo - però - quelle fortune non erano riservate a me, perché l'unica cosa che avevo conosciuto fino all'età di quindici anni, erano state continue violenze fisiche e puro odio, per qualcosa che non avevo fatto.
Avrei voluto solamente un po' di serenità, che a breve tempo sarei - inaspettatamente - riuscito a trovare in due paia di occhi castani, pronti a salvarmi da tutto questo casino che era diventata la mia vita, dietro ad un paio di occhiali - neri - rettangolari.
Mi alzai velocemente dal ragazzo quando, due agenti della polizia, cercarono di prendermi per le braccia, con l'intenzione di potermi fermare.
E cresciuto, non sapendo far altro, sferrai con forza pugni - stretti fortemente dalle mia dita - in loro direzione, facendoli indietreggiare mentre si passavano le mani sulle labbra, che io stesso avevo colpito secondi prima.
La donna che mi aveva messo al mondo mi aveva cresciuto così, dovevo solo trovare qualcuno che fosse - in qualche modo - in grado di placcare questi uragani in me.
Perché questo faceva un uragano, distruggeva - per natura - tutto quello che si ritrovava nel cammino.
Un professore cercò di avvicinarsi, si trattava del Signor Waynes, che insegnava Scrittura Libera come corsi extra agli studenti della Columbia.
Ma con un: "La prego Signor Waynes, si allontani, non vorrei fare del male anche a lei" parlai stringendo i denti, assottigliando lo sguardo in direzione dei suoi occhi.Lo vidi rabbrividire insieme ai presenti studenti che mi circondavano, guardando la scena increduli.
Questo ero, un mostro che terrorizzava le persone che cercavano di aiutarmi.
Ai loro occhi, tutto questo sembrava nuovo.
Invece erano anni, che il sottoscritto, cercava di conviverci.Istanti più tardi tornai al ragazzo ancora steso a terra, per finire quello che avevo iniziato.
E quando aprì lentamente la bocca, per chiedermi di smetterla, sentii la voce dell'unico uomo che aveva dato un senso alla mia vita dall'età di quindici anni a questa parte.
Mio padre.Mi aveva - in un certo senso - salvato tutto quello che rimaneva ancora di me. "Isaac, basta così. Per favore, hai fatto abbastanza." Mi aveva detto con voce calma non distogliendo il suo sguardo dal mio, cercando di calmarmi.
Era quello il metodo che aveva sempre usato, da quando mi aveva adottato, per comunicare con me.Ispirai fortemente dalle narici, chiudendo le palpebre e focalizzando la penombra che vedevo ad occhi chiusi.
E dopo essermi alzato, andai nella direzione opposta, allontanandomi da quelle persone.
Il Signor Walker, mio padre e preside della scuola, era riuscito a calmarmi per cercare di non peggiorare la situazione: sia del ragazzo a terra e sia dei presenti che mi guardavano con il terrore nello sguardo.
Camminai con la schiena dritta, le spalle non ondeggiavano, le mani ancora tremanti nascoste nelle tasche dei miei pantaloni.
Dovevo andarmene, perché stavo cercando di affrontare una battaglia più grande.
Me stesso.
Non ero sicuro di poter vincere contro i miei mostri e contro le mie stesse paure. Pensai entrando nelle mie quattro mura oscure, che si trovavano nei dormitori scolastici della Columbia, chiudendomi - successivamente - la porta della stanza 113 alle mie spalle.
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Il ragazzo della 113 | Noah Centineo
FanfictionLe regole alla Columbia University sono poche e precise: puntualità alle lezioni, tenere uno studio costante e comportarsi civilmente. Ma soprattutto, stare lontani dal ragazzo della stanza 113. Eisel Johns, considerato l'angelo della scuola, non fa...