Cap. 5

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Chat Noir osservò la pioggia cadere dai resti dell'enorme vetrata di quella che, un tempo, era una camera da letto.

Fino ad un anno prima era colma di svariate cose: una vasta libreria riempita di libri, un letto comodo, un divano bianco davanti ad una tv a schermo piatto, dei poster di varie competizioni sportive, delle macchine da gioco, varie console e persino un tavolo da biliardo.

Ora, tutto era distrutto o ridotto a brandelli.

Quella camera sembrava una di quelle stanze delle case infestate nei film horror, con tanto di qualche asse di legno alle finestre rotte per impedire che l'acqua e la neve entrassero, ed il vento che soffiava dai buchi non tappati producendo un fischio inquietante; anche le altre stanze della casa erano messe male, se non peggio.

Quella che prima era una maestosa villa di una ricca famiglia parigina, ora era la casa degli orrori: il rifugio della Belva Nera.

Il letto, per sua fortuna, era ancora a posto, anche se alcuni cuscini erano stati distrutti dai suoi artigli durante uno dei suoi "momenti no", se così si potevano definire.

Villa Agreste una volta era splendida e faceva invidia a tutti gli abitanti della zona, se non della città intera; ora, invece, faceva invidia soltanto al castello di Frankenstein.

Il felino, sdraiato sul fianco destro, si sistemò in posizione fetale, stringendosi le gambe al petto e fissando un punto non preciso della parete, incapace di focalizzare la sua attenzione su qualsiasi altra cosa al di fuori di quella camera.

Ricordava perfettamente la locazione di ogni singolo oggetto in quella stanza ed in tutte la altre, senza contare che, molte volte, sentiva il passo fantasma delle persone che prima camminavano lungo quei corridoi; aveva la sensazione che se avesse aperto gli occhi si sarebbe svegliato da quel spaventoso incubo circondato dalle persone che abitavano nella villa.

E perché aveva questa strana sensazione?

Semplice.

Perché era casa sua.

—•—•—

Marinette rimase ad osservare la pioggia che si infrangeva sul vetro della botola e scivolare lungo esso, formando una piccola cascata che finiva sull'attico, dandole l'impressione che almeno l'acqua potesse lavare via i mali che assillavano i parigini, ma sapeva benissimo che non era così semplice.

Sospirò, ripensando a quello strano quanto –doveva ammetterlo– atteso incontro: conoscere persone le era sempre piaciuto e se riusciva a farsele amiche era ancora meglio, e sapeva che con Chat Noir non sarebbe stato molto facile riuscire a parlarci come faceva con tutti, ma non doveva –e non poteva– trattarlo come uno diverso dagli altri; era una persona, un ragazzo come lei.

Un ragazzo con una strana tuta di quello che sembrava lattice, con un paio d'orecchie e coda da gatto ed una maschera ad incorniciargli gli occhi verdi.

Aveva trovato i suoi parecchio affascinanti, non solo per il colore simile a quello dello smeraldo colpito dalla luce del sole, ma anche per tutto ciò che esprimevano: la prima volta vide preoccupazione per lei, sollievo appena l'uomo corse via ed il terrore prima di allontanarsi da lei, mentre quella sera esprimevano un sentimento di felicità; seppur avesse espresso tutte quelle diverse sensazioni nell'arco di due giorni –il tempo che ebbe a disposizione per incontrarlo–, nascondevano sempre tristezza, solitudine e paura del mondo che lo circondava.

Come biasimarlo, pensò lei girandosi sul fianco a mettersi in posizione fetale e chiudendo gli occhi, volendo addormentarsi il più presto possibile.

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