VI - Lasciare gli amici fedeli

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Dopo le sconcertanti avventure avute nelle settimane precedenti, per Roxanne iniziare le lezioni fu una manna dal cielo: aveva finalmente un obiettivo concreto che non fosse sopravvivere, qualcosa a cui dedicarsi e con cui distrarsi dai suoi pensieri di sangue e incubi. Le sembrava di non provare alcuna fatica ad impegnarsi tanto nello studio, probabilmente perchè si trattava di qualcosa che le piaceva da sempre; avrebbe addirittura potuto insinuare che si stesse rilassando: dal giorno in cui suo fratello era deceduto, non aveva avuto un attimo di pausa o di privacy. Era sempre sobbarcata di impegni scomodi, allenamenti fino allo strenuo, incontri formali o convocazioni nell'ufficio di sua madre per ricevere una strigliata, e non si era mai resa veramente conto di quanto fosse sotto pressione fino a che non se n'era completamente tirata fuori. Forse, allo stesso modo, era stata proprio quella irreale calma e languida libertà ad aver attratto Bellamy.

Bellamy. Si erano incrociati solo una volta nell'intera settimana precedente, per caso, in una delle ronde serali di Roxanne: l'aveva riconosciuto da lontano, nonostante la fioca luce dei lampioni; l'aveva ritenuto un prolungamento di se stessa per la maggior parte della sua vita e, adesso, lo percepiva come un arto fantasma: la sensazione che fosse ancora lì era onnipresente, sentiva ancora una leggera connessione con lui, un legame che le permetteva di individuarlo anche ad occhi chiusi, eppure sapeva che le era stato strappato via, amputato come una parte del corpo malata. Blake sedeva con Clarke su una delle panchine, e, notandola, entrambi le avevano rivolto un cenno di saluto, Clarke molto più calorosamente dell'altro. Non si era avvicinata. Le faceva troppo male vederli insieme in quel modo. In compenso, almeno Blake aveva avuto la decenza di non presentarsi più nel loro appartamento, anche se Roxanne sospettava che, più che per il suo buon cuore, fosse perché la sua vista lo ripugnasse. Non le importava più di tanto, le bastava non vederlo; sarebbe stato più semplice per lei autoconvincersi che non esistesse. In ogni caso, tirando le somme, erano stati dieci giorni fantastici: aveva appreso già molte nozioni interessanti nell'ambito della pittura che non vedeva l'ora di mettere in pratica, chiarito alcuni dubbi sulla storia dell'arte nell'alto medioevo e finalmente capito come si sarebbe svolto nel dettaglio il suo anno scolastico - compreso l'infinito elenco di feste e gite gentilmente offerto da Clarke. Si era persino iscritta al club di basket femminile, riportando alla luce il suo passato da guardia miratrice e scoprendo, con un misto di malizia e imbarazzo, che anche Max giocava a pallacanestro. A dire il vero, era un pezzo grosso nella sua squadra, e non solo per le sue spiccate abilità tecniche, ma anche per le sue innate doti da leader e motivatore; non a caso ne era il capitano. Questo li aveva spinti ad incontrarsi spesso nei giorni precedenti, dato che avevano la maggior parte degli allenamenti nella stessa fascia oraria: lui si era sempre dimostrato gentile nei suoi confronti, sorridendo ogni volta che i loro sguardi si incrociavano per caso. Se da un lato la rallegrava porter guardare di sottecchi quella statua greca vivente mentre si aggirava per il campo con la maglietta incollata al corpo e il sorriso stampato in faccia - per non parlare degli apprezzamenti che aveva inconsciamente rivolto sul suo fondo schiena -, allo stesso tempo era fastidiosamente consapevole di ogni mossa e di ogni suo errore e sperava che lui, lontano nell'altro campo, non li notasse. Era una sensazione che la faceva sentire molto umana, come se, dopo tanti anni, stesse man mano tornando a provare emozioni, strisciando lentamente fuori della sua apatia. Si sentiva in un caleidoscopio di novità , accecata in continuazione dai colori sgargianti di quel nuovo, piccolo e incontrollato universo, e tutto cominciava ad andare a gonfie vele quando si era ritrovata una convocazione dal preside. Ad essere sincera, all'inizio aveva subito pensato al peggio- "Mi hanno scoperta. É finita. Mi rispediscono a Detroit"-, ma poi, tornando lucida, aveva capito che si trattava del pugno che aveva tirato ad un ragazzo il giorno prima. Un episodio tanto irrilevante a confronto dei soliti scontri con gli altri gangster, che l'aveva quasi rimosso. 

<<Signorina Moore, sarebbe così gentile da ripetermi la sua versione dei fatti?>> mormorò il preside Martin strofinandosi gli occhi sotto le lenti leggermente storte. Era lì dentro già da un quarto d'ora ed era incredibilmente stufo della sua presenza. Il dirigente era un uomo sulla sessantina, baffi bianchi, mani leggermente tremanti a causa dell'artrosi e un alto livello di insofferenza. Sembrava un uomo pulito e, dopo aver visto la foto dei suoi tre nipoti poggiata sulla scrivania, Roxanne sperò che non venisse mai a conoscenza delle belve che si celavano nel suo college.

Il cerchio del MaleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora