"And all the people say
You can't wake up, this is not a dream
You're part of a machine, you are not a human being"
- Gasoline, Halsey
In casa propria, al riparo da qualsiasi occhio indiscreto, Noah si mise a frugare tra gli scatoloni in cui aveva stipato le poche cose che si era portato via quando era partito per Vienna - alcune le aveva infilate lì dentro per paura che andassero perse, altre per una sorta d'imbarazzo: segreti, ricordi intimi e altro che avrebbe preferito nessuno vedesse, non ancora, quantomeno. Così, ammassati ordinatamente gli uni sugli altri, in una logica ben precisa, c'erano magliette a cui si era particolarmente legato, fotografie di dubbia serietà, raffiguranti lui, Hans e altri conoscenti, disegni dalle forme strane e diari che considerava tesori inestimabili, pagine su cui aveva scritto le stramberie più insolite e, soprattutto, i primi accenni delle allucinazioni.
Rovesciando senza premura il contenuto sul tappetto, Noah iniziò ad aprire alla rinfusa i taccuini alla disperata ricerca di qualcosa, delle pagine che gli erano tornate alla mente per colpa di quel Levi, delle sue parole: "ki bishevilekha ani amutt pi meah" (perché per te io morirei cento volte). Il significato di quella frase gli era estraneo, non poteva negarlo, eppure in qualche modo gli sembrò di averla già udita. Più la ripeteva, più gli sembrava avere il suono di un ricordo lontano, familiare; una sorta di ninna nanna cantatagli da pargoletto e rimasta impressa nella testa dell'adulto che era diventato - ed era sicuro fosse legata a una parte di sé che aveva cercato di lasciare nel passato, esattamente come i deliri che invece erano tornati a fargli visita.Raccolse tutti i diari, se li portò vicini, poi con una certa frenesia prese a girare una a una le pagine ingiallite. Non seppe nemmeno dirsi in quale ordine li stesse leggendo, sapeva solo che ogni volta che non si imbatteva in ciò che stava cercando finiva con il digrignare i denti, infastidito. Aveva fretta nonostante nessuno gliene stesse mettendo, ma la sua fame di conoscenza diventava ogni minuto più grande, gli torceva le budella arrivando quasi a nausearlo. Doveva capire. Doveva dare un senso a quelle parole, ai sogni, alle sensazioni provate e a Levi stesso, così estraneo eppure conosciuto.
Incurante buttò a lato il primo diario, lasciandolo ruzzolare sul pavimento, poi afferrò il successivo. I suoi occhi si mossero spasmodicamente da un foglio all'altro, soffermandosi giusto ogni tanto per essere certi di non perdersi nulla, ma subito riprendevano la corsa, quasi impauriti dalla possibilità di finire il tempo a disposizione - peccato avesse tutta la notte davanti a sé.
Noah avanzò tra le righe scritte anni prima negandosi il piacere di assaporare quelle parole, i pensieri che aveva avuto o le avventure che aveva vissuto fin quando, finalmente, scorse ai lati di alcune pagine la forma malferma di un triangolo capovolto, al cui centro si univa un altro simbolo che, infine, si andava completando con l'immagine di un serpente intento a mordersi la coda: l'uroboro, così gli sembrava si chiamasse - e per quel che ne sapeva, si trattava di un simbolo antico, di un disegno spesso associato a culture passate od occulte di cui, da bambino, dubitava avesse potuto conoscerne il senso; eppure lo aveva replicato. Perché?
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Le Chimere di Salomone: il Re
FantasyRe Salomone: colto, magnanimo, bello, curioso, umano. Alchimista. In una fredda notte, in quella che ora chiamiamo Israele, egli stringe tra le braccia il corpo di Levi come se fosse il tesoro più grande che possa mai avere. Lo stringe e giura che...