5~ L'inferno di Yuna

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Colonna sonora: Zombie- The Cranberries

Dei clangori metallici si diffusero insieme a profusioni di pianti e urla.

Yuna aprì gli occhi. Nella cella angusta in cui si era svegliata, non solo i piccoli, ma anche quelli che le sembravano 'grandi' singhiozzavano e si comportavano come bambini. Solo le donne capellute non piangevano e scappavano per la stanza sussurrando 'sss' e regalando carezze qua e là.

«È meglio che tu faccia i bisogni, prima che arrivino» disse Mary, ma lei non capì, non fiatò e non si mosse.

«La pipì o altro... Loro vanno su tutte le furie quando qualcuno se la fa sotto.»

Le indicò il vaso alla turca in fondo alla stanza. A vista, in un angolo.

«Davanti a tutti?»

«Sì, qui funziona così.»

Yuna si alzò in piedi e cercò coraggio negli occhi vacui degli altri poveretti, ma non lo trovò. Arrivò al piatto di ceramica schizzato di escrementi. Mise i piedi sulle basi antiscivolo e si abbassò le mutandine. Reggendo la tunica in modo da non schizzarla, si accovacciò e si sforzò di tirare fuori qualche goccia.

Poi liberò il posto per il prossimo: un ragazzo calvo, o forse una ragazza, che faticava a stare in equilibrio.

Mary lo guidava tenendolo per mano.

Lo aiutò a posizionarsi e gli resse la veste sopra la vita; era una femmina. Fu sempre Mary a pulirla, con uno strappo della carta igienica che si trovava per terra, vicino a un lavandino incrostato di sudiciume. Poi le lavò le mani nel lavabo.

Nel frattempo, un'altra capelluta aveva condotto un altro calvo alla latrina e lo aiutava a tenersi in posizione raccolta, mentre l'aria si appestava per via degli escrementi che il foro di scarico faticava a lasciar defluire.

Yuna si premette le mano sulla bocca e sul naso, ma funzionò solo fino a quando non fu costretta a prendere il respiro. Allora si arrese e si rassegnò a sopportare la puzza fino a che l'olfatto non ci si abituò.

Uno dopo l'altro, come in una catena di montaggio, tutti salirono sulla turca e lasciarono il proprio contributo all'olezzo di quel luogo. Qualcuno lo fece senza smettere di partecipare al piagnisteo che regnava dentro e fuori dalla cella.

Non appena si ripristinò la quiete, un rimbombare di passi precedette un nuovo scompiglio: serrature che si sbloccavano e cigolii come di cardini arrugginiti, tra urla infantili e voci di uomini che strillavano di tacere e lanciavano improperi.

La porta metallica si spalancò stridendo.

Un uomo entrò nella cella agitando uno sfollagente. Un altro comparve sulla soglia spingendo una sorta di carrello. Una gabbia più che altro, senza tetto e con le ruote. Quello con lo sfollagente si caricò in braccio il più piccolo dei calvi, un fagottino com'era lei nelle foto di quando aveva due o tre anni. Lo depose nel carrello con le sbarre e prese un altro piccolo, che era più o meno come lei quando faceva la prima elementare.

Anche quello finì dentro al carrello seguito poi da altri due che, sebbene fossero grandi come ragazzi delle scuole medie, non sapevano camminare. Gli energumeni li presero uno per ciascuno abbracciandoli per la vita e facendosi venire il fiatone nel trasportarli. Ne caricarono altri due allo stesso modo, fregandosene del fatto che piangevano e si agitavano disperati. Accompagnarono l'atto di sollevarli ulteriormente, per gettarli nella gabbia, con delle urla da sforzo. Quindi se ne andarono lasciando la porta aperta.

Subito irruppero altri due brutti ceffi.

Le donne capellute si tenevano inchiodate al muro. Erano rimasti solo i ragazzi più grandi. Sgambettarono impauriti verso il corridoio, come se già sapessero cosa dovevano fare, ma uno di loro non si mosse.

L'ultimo olocaustoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora