Colonna sonora: End of all hope- Nightwish
16 giugno 2065Gli 'ambulatori'. Era così che i carcerieri chiamavano le stanze nelle quali i prigionieri venivano sottoposti a pratiche barbare e dolorose. Come gli altri bambini, Yuna veniva trascinata negli ambulatori una volta alla settimana.
Ogni volta, prima di tutto, le venivano misurati peso e altezza.
Non sapeva perché lo facessero, ma aveva capito che non erano soddisfatti. Dicevano che cresceva poco, eppure lei si vedeva normale: era un metro e cinquantacinque e frequentava ancora la scuola primaria quando era stata rapita.
Un uomo, con evidente insoddisfazione, consultava un fascicolo.
«16 giugno 2065. Il Soggetto è qui da sei mesi e non ha fatto alcun progresso, la risposta ipofisaria al farmaco stimolatore è quasi nulla.»
«Sarà perché abbiamo iniziato i trattamenti che aveva già compiuto dieci anni» ipotizzò Moshen, colui che Yuna odiava più di tutti in quel posto.
Seduta sul lettino, ascoltava confusa gli uomini che si erano occupati di lei fin dalla sua prima volta in ambulatorio e che l'avevano torturata impiantandole quell'oggetto assurdo che aveva in testa. Si chiese se avessero una famiglia, dei bambini, e se anche ai loro figli facessero le cose che facevano a lei e agli altri bimbi lì dentro. Non sapeva nulla dei suoi aguzzini, a parte che andavano spesso a giocare a golf. Li odiava con tutta sé stessa e, segretamente, sognava vendetta mentre quelli discutevano animatamente del suo stato fisico.
«Per me potremmo anche prepararla subito per la trasformazione, la sua crescita è così lenta. È una perdita di tempo e denaro aspettare» disse il tizio di cui non conosceva il nome pur avendolo già incontrato varie volte.
«Sono d'accordo con te, ma lo sai come la pensa il capo.»
«Quel che conta non è il costo, ma il risultato!» dissero insieme e risero. Poi Moshen tornò serio.
«Ogni goccia che possiamo ricavarne è preziosa. Dobbiamo continuare con le terapie ipofisarie finché il Soggetto non completa la crescita corporea, anche se dovesse volerci molto più tempo del dovuto» disse.
Le si avvicinò e armeggiò con un piccolo punteruolo sull'aggeggio impiantato nella sua testa.
«Vediamo di ricaricare questo coso.»
Si sentì un click.
Riempì una siringa col contenuto cristallino di un flacone senza etichetta e ce la vuotò dentro.
«Fatto, questo basterà per un'altra settimana.»
Fece un cenno al collega e quello uscì nel corridoio.
«Avanti un altro» disse e subito un tizio entrò in ambulatorio spingendo dentro un'altra persona calva.
Il tizio si rivolse a Yuna: «Scendi da quel dannato lettino, con te hanno finito per oggi. Adesso è il turno di questo qui».
Scambiò il ragazzino con lei: la prese per un polso e la trascinò fuori di lì.
La scagliò addosso a un gruppo di poveretti ammassati in fondo al corridoio. Per Yuna era tutto così surreale e terribile: tra quei ragazzi dalle teste rasate non c'era nessuno con cui poter parlare, nessuno che capisse alcunché.
C'erano solo paura e dolore a unirli in quell'assurda esperienza mentre, sotto la sorveglianza di un uomo che non mostrava alcuna empatia, si avvicendavano nell'ambulatorio.Quando tutti furono passati tra le mani di Moshen, il sorvegliante li riaccompagnò attraverso corridoi sinistri sui cui lati si succedevano le porte metalliche di quelle che, ormai le era chiaro, erano nient'altro che celle di prigionia. Vocii lamentosi, sospiri e pianti ne provenivano, come nei gironi infernali di cui aveva sentito parlare a scuola.
Lo aveva pensato di essere finita all'inferno, ma Mary le aveva spiegato che non era così, che erano ancora vive e che dovevano avere speranza.
Quando fu riportata in cella, corse da lei in cerca dell'unico conforto che riusciva ad avere in quella prigione. Una presenza rassicurante, tra tutti quegli indifesi e tra le altre donne con i capelli, troppo sconvolte per poterle dare sostegno.
Mary l'accolse, ma le sue braccia erano molli, incapaci di farle sentire quel calore che tante volte le avevano offerto.
Yuna sollevò il viso dal suo petto, e si staccò un poco dal suo ventre pieno in cui qualcosa s'era appena mosso. La guardò in faccia e si accorse degli occhi gonfi, del naso arrossato.
«Cosa c'è?» domandò.
«Lisa...» disse Mary, e qualcos'altro le morì in gola tra i singhiozzi.
Si guardò intorno, Lisa non era lì. «Dov'è?»
Una non modificata parlò: «Quei bastardi non l'hanno riaccompagnata in cella.»
«Cosa?»
«Non la rivedremo più, come i miei figli, come quelli di Ginger e delle altre.»
«Siamo come conigli» disse Ginger rannicchiata in un angolo, con tre bimbi enormi che le dormivano accucciati addosso.
«Siamo qui per figliare e quando i nostri piccoli sono grandi ce li portano via.»
Rise in modo isterico. «Sono riusciti a farci avere anche gli stessi tempi di gestazione dei conigli. Stronzi maledetti...»
«Smettila adesso!» strillò Mary. Alcuni bimbi si misero a frignare, tra essi anche Sam e Mark, i suoi neo-nati gemellini. Tre mesi di vita e già alti quasi quanto lei.
Li raggiunse dov'erano accovacciati e si sedette tra loro a coccolarli.
Yuna pensò alle cucciolate degli animali, e fece delle similitudini con ciò che vedeva lì dentro: più cuccioli per ogni mamma, e quando diventavano abbastanza grandi venivano dati via. Lisa era stata l'unica eccezione, l'unica a non avere almeno un gemello, ma era stata portata via lo stesso.
Pensò a sua madre, non aveva più saputo nulla di lei. Si chiese se anche lei avesse avuto figli dopo che le avevano separate.
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L'ultimo olocausto
Science FictionSeconda metà del secolo corrente. Crisi energetica e sovrappopolazione innescano circostanze drammatiche e precipitano il mondo nel caos. In un'ottica di conservazione del benessere, ogni essere umano diventa vittima e carnefice allo stesso tempo. E...