20~ Trame oscure

123 26 85
                                    

Colonna sonora: Paint it black- Rolling Stones

Amhid Kassir

Al-Hukm, Arabia Saudita

Quella notte era scura come una colata di pece sull'isola di Al-Hukm.

Al piccolo porto, Amhid Kassir seguiva uno scarico merci nel buio. Facendo attenzione a non sporcarsi il kandura bianco con il grasso di cui era unto il portellone, aprì il container depositato dalla gru. Dopo averne verificato il contenuto, alzò un braccio per richiamare l'attenzione di un operaio alla guida di un carrello elevatore.

«Porta le derrate alimentari alla mensa e i barili al deposito del carburante» gli ordinò, non appena l'uomo si fu fermato.

Si sfilò un paio di guanti in lattice e guardò la collinetta artificiale sulla cui sommità si ergeva una semisfera di vetroresina: la cupola dell'ex planetario.

Doveva tornare là sotto e mandare avanti il lavoro, ma il Mar Rosso di notte era incantevole. Era uno scrigno che custodiva ricordi e segreti, un rifugio e un ristoro.

Diede le spalle alla cupola, sotto il cui riflesso la piccola popolazione di Al-Hukm lavorava assiduamente. Si incamminò lungo la banchina, ammirando le lamine diamantate che la luce lunare rifletteva sul mare. Quanto era differente quel luogo rispetto alla prima volta che vi era stato per una vacanza, prima della grande crisi. Aveva alloggiato in uno dei migliori bungalow dell'isola, proprio quello che poi era diventata la sua casa.

Un tempo lì c'erano spa, piscine, campi da tennis... ora solo laboratori.

Si domandava se Tahimàd fosse stato colto da un'intuizione quando aveva fatto costruire quell'isola; se avesse visualizzato con anticipo quel che sarebbe potuto diventare quel complesso turistico o se, semplicemente, gli avesse trovato una nuova ragione di esistere quando aveva capito che di turisti non ce ne sarebbero stati mai più.

Imboccò il tunnel che portava ai sotterranei. Un tempo laggiù si trovavano la spa, dei negozi e il ristorante a cinque stelle in cui aveva tante volte cenato sotto la cupola, osservando i moti celesti che vi venivano proiettati, oppure ammirando il firmamento reale, quando essa veniva aperta.

Si avventurò per il reticolato di gallerie dove ormai avrebbe saputo orientarsi anche a occhi chiusi.

Arrivò in quella che era stata la maestosa sala dell'ex ristorante. Ora quel luogo ospitava un colossale marchingegno, la cui base circolare era ampia poco meno del perimetro della cupola che si stagliava sopra la sua testa.

Shaddad fece un cenno affermativo col capo mentre, nell'immobilità del suo corpo, il kandura che indossava era come un lenzuolo adagiato su una colonna. A braccia conserte, seguiva il lavoro di alcuni operai abbarbicati su ponteggi che permettevano loro di arrivare al corpo centrale della struttura: un enorme tronco di cono, con un foro in punta, fatto di materiale trasparente che permetteva di vederne l'interno cavo e che svettava in verticale, puntando verso il centro della cupola.

«Bene» disse Shaddad. I suoi zigomi si sollevarono e la lunga barba si mosse mentre il naso adunco affondava nei baffi grigi.

«Anche qui buone notizie: il sistema di propulsione ha superato tutti i test. Abbiamo bisogno di rinforzare la cannula di espulsione, ma non sarà un lavoro complesso.»

Distolse lo sguardo dall'opera per fissarlo su di lui.

«È incredibile quello che siamo riusciti a fare in così breve tempo, non è vero?»

«Già. È un buon risultato Shaddad.»

«Un buon risultato? È un risultato ottimo! Siamo agli ultimi dettagli. Questa fornitura di carburante potrebbe essere l'ultima di cui abbiamo bisogno. Tra non molto vedremo questo gioiellino in funzione ed è merito di Tahimàd, dobbiamo tutto al suo coraggio. Finalmente ci siamo, tra poco lo riabbracceremo.»

L'ultimo olocaustoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora