L'arte della precarietà ; XIX

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Dopo quella notte, in cui avevo espresso quel dolce ricordo a Namjoon, anche la rilettura delle mie poesie preferite sarebbe stata catartica per il mio animo, come sempre lo era stata

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Dopo quella notte, in cui avevo espresso quel dolce ricordo a Namjoon, anche la rilettura delle mie poesie preferite sarebbe stata catartica per il mio animo, come sempre lo era stata. Dopo quella notte, il giorno dopo, non andai a scuola e mi chiusi in camera mia a leggere.
Seduto sul mio letto in una posizione scomposta, sfogliavo lentamente, assorto come un discepolo, un libro di haiku del diciannovesimo secolo.

"Non scordare:
noi camminiamo sopra l'inferno,
guardando i fiori"
di Kobayashi Issa, probabilmente per l'instabilità del mio animo in quel periodo, mi aveva commosso di una commozione profonda, che scuote il cuore. Aveva cominciato a battere forte perché mi ero immaginato, mentre le mie dita correvano tra quelle parole, mano nella mano con Taehyung a passeggiare senza timore attraverso gli sguardi indiscreti di tutta la gente. Ricordai quando la recitai a Taehyung, gliela sussurrai all'orecchio sul suo letto, quando tutto il mondo fuori già taceva. E poi un altro:

"Non piangete, insetti
– gli amanti, persino le stelle
devono separarsi"

Fu più forte di mille tempeste.
Col cuore in gola, presi il mio taccuino che aveva giaciuto accanto a me, sul letto, lo poggiai sulla mia gamba e cominciai ad annotare qualcosa frettolosamente, come se un solo attimo di distrazione avesse potuto rapire i miei pensieri e portarseli via per sempre.

«Le poesie di Kobayashi hanno un che di simile al mio stato d'animo. Le ritengo essere dolci e fanciullesche, per questo pure e soavi come un canto angelico, che però è estremamente malinconico e a tratti tragico. La precarietà del proprio stato di quiete è inevitabile nel mondo umano, e quasi sempre ci si aspetta la sua morte. Si fluttua sopra un inferno infinito, per cui bisogna muovere le braccia e cercare sempre di allontanarsi verso il sole, perché risulta inevitabile cadere e sprofondare. Eppure c'è qualcosa che allontana la ragione umana dalla consapevolezza dell'inferno terrestre, forse la natura. La natura è bella e idilliaca, rappresenta la patria di ogni essere umano, lacerata nei suoi organi interni da epoca in epoca. La natura è poderosa e disarmante, forte come niente di immaginabile, e niente di paragonabile ai sentimenti umani, che eppure la captano ma non se ne fanno più nulla.
Hanami, presente in questo haiku, vuol dire «ammirare i fiori». I fiori... non trovi siano bellissimi, i fiori? I sakura, però, nel mondo giapponese sono simbolo della caducità della vita. I sakura sono i fiori di ciliegio e il mio fiore preferito. Ricordo che quando mi sono trasferito a Seoul ero molto spaventato, eppure non vedevo l'ora di vedere i sakura sbocciare, per questo aspettavo la primavera con molta ansia. Ma prima dell'arrivo della primavera ho visto lui. Forse era qualcosa di meglio dei sakura. O forse lui stesso era un sakura.
No, non concentriamoci su qualcosa che non è presente. Parliamo dei sakura. I sakura mi hanno dato una ragione in più per sperare nel mio futuro. Forse sembrerà banale, a tratti sembra che stia vaneggiando, eppure è così. Amo i fiori. Li amava anche lui come me, ma questo non importa adesso. Amo i sakura perché la loro fioritura dura molto poco. I sakura non fanno in tempo a fiorire e a far godere della loro estrema bellezza. Mi sembro molto un sakura in questo periodo: un solo soffio di vento può farmi precipitare in quell'inferno senza fine. Lo riconosco, l'ho già sperimentato. Posso già sentire la terra fredda sotto di me su cui potrei inevitabilmente sbatterci e morire per sempre. Chissà se mi salverò. I sakura non hanno possibilità di salvezza, muoiono e basta perché sono già destinati. Forse c'è qualcosa che mi manovra come se fossi un burattino? Insomma, Kobayashi descrive con estrema dolcezza e leggerezza innocente ciò che, quando ci penso bene, mi fa tremare le gambe. In questo senso, la filosofia di Kobayashi può aiutarmi davvero.»

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