27. L'Ossessione di Ricordare

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Yara

Lo scoppiettio del fuoco che brucia nel caminetto è l'unico suono allegro che mi circonda. O, per meglio dire, l'unico suono allegro da cui mi lascio circondare.

La cornice ornamentale in ferro battuto è intrappolata nella presa delle mie dita; la fotografia coperta dal sottile vetro di plastica incastonata nel mio sguardo.

Analizzo ogni lineamento, ogni caratteristica, ogni segno particolare, nell'inutile tentativo di sbloccare la mia memoria.

Devi ricordare.

I capelli bruni, la frangetta tagliata sopra gli occhi celesti e il sorriso raggiante.

Devi ricordare.

Guardo la giovane donna intrappolata nella cornice e la tristezza mi assale, insieme alla rabbia, al dolore e all'impotenza.

Niente. Non ricordo niente.

È diventata solo una fotografia.

Una lacrima furente scende sulla mia guancia e mi bagna il collo, per poi cadere sul suo viso, coperto dalla plastica trasparente.

Presa dalla collera e dall'incoscienza, scaglio la cornice contro il muro e questa va a rompersi in mille pezzi. Rimane solo la fotografia, coperta da frammenti e cocci, posata sul pavimento di legno scuro.

Poggio la fronte sulle ginocchia strette al petto e lascio che le lacrime continuino a scendere instancabilmente.

Vorrei tanto star male per lei, ma riesco a star male soltanto per me stessa.

Desidero intensamente riportare a galla tutti i ricordi sepolti dalla mia mente. Voglio aiutare mio padre a stare meglio, soffrire con lui. È devastante subire il dolore, quando io non riesco a versare neanche una lacrima per la mamma.

Quando se n'è andata ero troppo piccola; non riuscivo a spiccare parola ed è normale che la mia memoria abbia rimosso tutte le informazioni legate a quel periodo, ma non riesco ad accettarlo.

Non posso accettarlo.

Sono arrabbiata, arrabbiata nera con lei. Mi ha abbandonata, se n'è andata, e mi ha lasciata così: sola e vuota. Ricordare non è più un obiettivo. Si è tramutato in un'ossessione vera e propria.

Devo farlo. Devo ricordare.

Le mie orecchie percepisco la serratura scattare e la maniglia muoversi: papà è tornato. Asciugo le guance bagnate e provo a sistemare i capelli alla bell'e meglio, per non sembrare più trascurata di quanto non sia.

Scruto i ceppi di legno nel camino, ridotti in cumuli di cenere scura, consumati dal fuoco ardente. Seduta sul divano e con lo sguardo puntato sulle fiamme, riesco a dare le spalle a mio padre.

Lo guardo con la coda dell'occhio. Prima ancora di salutarmi, si è diretto verso la fotografia che ho gettato in terra. Raccoglie i frammenti, li butta nel cestino accanto al mobile d'ingresso e prende il pezzo di carta raffigurante la donna della sua vita, che ha lasciato solo un enorme buco nero nel suo cuore, e la posa delicatamente sul ripiano della madia.

Sembrano passare secoli prima che incastri i suoi occhi di ghiaccio nei miei. Non si prende nemmeno la briga di rimproverarmi. Mi guarda soltanto sconfitto e preoccupato.

«Sei tornato presto» esordisco, tirando un'occhiata all'orologio appeso al muro. In realtà, sono le tre di notte.

«Già» risponde, laconico. «Sei ancora sveglia?»

Mi limito ad annuire, e lui non ribatte. Non mi guarda, non mi parla, non mi ascolta. Tra di noi solo silenzio. Un silenzio scandito dal ticchettio continuo e ritmato della lancetta dei secondi.

Il Segreto della DinastiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora