11) Raccontami i colori, che non vedrò.

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Non so come stai e mi manca saperlo.

Tra la moltitudine di messaggi non letti, di chiamate a cui non avevo risposto, questo imploro inascoltato aveva attirato la mia attenzione.

Tu non ci sei, Ermal.
Non hai potuto chiudere insieme a me quella porta d'albergo, che era stata il confine fra il paradiso dei tuoi abbracci e gli schiaffi infernali della vita vera.

Ho voltato le spalle di fretta, consapevole che se mi fossi fermata, probabilmente non avrei mai preso quel volo.

Se significava allontanarmi da te.
Abbandonare il porto sicuro dei tuoi occhi, verso un ignoto che aveva il sapore amaro di tutte le lacrime che avrei trattenuto per non apparire debole.
Neanche stavolta.
Come l'ultima volta.

Fuggire via da un Italia, che avevo odiato con tutta la rabbia che frustrava il mio esile corpo e lo inghiottiva sotto il peso dei suoi tentativi sbagliati.

Eppure da qualche tempo, l'aria sembrava cambiata, il vento mi guidava verso la direzione giusta, quella delle tue braccia spalancate come ali, pronte ad incastrarmi in una quotidianità leggera, con cui non avevo paura di fare i conti.

Avevi avuto la capacità di far muovere le mie stelle in una nuova rotazione, che prevedeva il sigillo di due mani, in un unico intreccio di corpi.

Mio fratello ha appena lasciato questo mondo.
Non posso dare la colpa a nessuno.
Nemmeno al destino.

Incolpare il destino è da perdenti, è solo una stupida scusa per appellarsi all'idea che qualcuno possa agire al posto nostro, invece di rimboccarci le maniche e far accadere qualcosa di straordinario.

Mio fratello quelle maniche le aveva ben rimboccate quella mattina, e qualcosa di straordinario lo aveva lasciato sulla terra.
Potevano salvarsi, entrambi, lui e la sua futura moglie, se solo non si fossero sacrificati per salvare un bus carico di bambini con i loro costumini addosso, pronti per un tuffo nel nostro mare.

Ma questa non è la mia Miami.
Quello non è il mio mare.
Non posso dare la colpa nessuno.

Il sole che si prende una pausa solo per qualche ora qui, alto, possente, mi infiammava gli occhi cosparsi di sale.

Quel calore di cui avevo fatto scorta, quando la malinconica aveva preso il sopravvento, non mi scaldava come aveva sempre fatto.

Sentivo il mio corpo rovente, ma la mia anima affievolita e ruvida, quasi anestettizata.

Come se qualcuno avesse spento i miei sentimenti.

Mi ero sempre chiesta se potesse esserci un modo per farlo, ad oggi so che è possibile.

Sono devastata dal vuoto, più pesante di qualsiasi altra sensazione.

Come se mi trovassi al largo con la certezza che nessuno verrà a cercarmi, perché impegnato a salvare qualcuno che ne ha più bisogno.

Rebecca, è la priorità di tutti.
E questo un po ci afflige, un po ci rasserena.
Ci rende sereni sapere che mio fratello ci ha donato una parte di sé e che la vedremo crescere sotto i nostri occhi.
A col tempo, siamo tutti molto trattenuti dall'esternare realmente ciò che sentiamo, per non trasmetterle tutto il dolore che ci portiamo dentro.

A volte, mi sento scoppiare Ermal.

Anche il suo equilibrio è sul filo del rasoio è come se stesse lì lì per crollare, e l'unica cosa che posso fare per cercare di mediare alla sua sofferenza, è accontentarla finché posso.

Ogni tanto la vedo appartarsi,  il malessere che tentiamo di celare viene fuori lo stesso, in momenti in cui abbassiamo per un attimo la guardia, e lei lo assimila da chi le sta intorno e non riesce a buttarlo fuori.
Se lo porta sulle spalle, come un macigno.

L'ossigeno non è respirare {Ermal & Frida}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora