.14. Tutta colpa mia.

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Barcellona, 
10 Novembre 1808.

<<Dio non sarà qui per fermarmi, Geneviève. Non esiste alcun Dio in grado di fermarmi.>>

Urlai ancora nella speranza che qualcuno mi sentisse, ma in cuor mio sapevo che anche se qualcuno ci avesse sentiti non sarebbe entrato per aiutarmi. A nessuno importava di me in quella tenuta. Ed erano tutti abituati alle urla provenienti da quello studio.

Tutti sapevano che era meglio non interrompere il padrone, qualunque cosa stesse facendo.

Alexander si lasciò sfuggire dei grugniti quando venne, uscendo da dentro di me appena in tempo. Riuscii a sgusciare via dal suo corpo e mi raggomitolai in un angolino, consapevole che l'unica uscita era chiusa a chiave, e la teneva lui nascosta da qualche parte. Piansi ancora, portai le gambe al petto e posai la testa lì.

Era tutta colpa mia. Mi ero lasciata sedurre. E ne stavo subendo tutte le conseguenze.

Dopo qualche secondo sentii i suoi passi. Si stava avvicinando. Ricominciai a tremare e mi morsi le labbra fino a sentire il sapore amaro del sangue.

<<Guardami.>>

Non mi mossi. Mi prese per i capelli e mi costrinse ad alzare la testa: si era messo i pantaloni e i capelli erano spettinati e fermi dietro la testa.

Sembrava... dispiaciuto. Non aveva più quello sguardo da assassino, era tornato l'Alexander dolce e arrogante che conoscevo.

Smise di tenermi stretta per i capelli; mi accarezzò una guancia con quella stessa mano. Altre lacrime mi scesero sulle guance.

<<Perdonami.>> mormorò inginocchiandosi.

Mi posò sul corpo una coperta e mi ci avvolsi come se da quell'oggetto dipendesse la mia sopravvivenza.

Non risposi. Ero ancora terrorizzata e arrabbiata.

<<Ti prego, Geneviève. Perdona i miei attacchi d'ira. È risaputo che gli artisti alle volte perdono le staffe. Mi dispiace che hai visto questo mio lato.>> mi tolse i capelli dal viso. <<Sei ancora la mia musa ispiratrice?>>

Non risposi. Non volevo rispondere. Tutto era cambiato. Tutto. Il sentimento che provavo per lui, svanito. L'eccitazione nel vederlo a torso nudo, svanita; sostituita dall'immagine di lui che mi violentava.

Scossi la testa. Non avrei mai più permesso che mi trattasse in quel modo. Mai più.

<<Ora me ne vado.>> affermai decisa. Mi alzai tenendo la coperta sulle spalle tentando di coprirmi il più possibile. <<Addio, padrone.>>

Lo guardai negli occhi per qualche secondo. Era sorpreso, molto sorpreso da quella mia affermazione.

E la sua espressione cambiò di nuovo.

Si avvicinò, mi prese per un braccio e mi scosse ferendomi con le unghie.

<<Tu non hai capito niente. Tu sei mia, io sono il tuo padrone, io faccio di te ciò che voglio e quando voglio, a prescindere dal tuo volere, stupida puttana domestica.>> ringhiò.

Altre lacrime mi scivolarono dagli occhi.

Mi batté contro il muro e posizionò le braccia ai lati della mia testa, impedendomi di scappare. Avvicinò il bacino sul mio ventre in modo da farmi sentire la sua eccitazione, poi mi baciò il collo e cercò di togliermi la coperta da dosso.

No, non di nuovo.

Non so come feci, non so dove trovai la forza, ma riuscii a spingerlo via. Troppo sorpreso per attaccarmi di nuovo, ne approfittai per scappare. Pochi attimi prima avevo visto la chiave dello studio, nascosta in un cassetto semi aperto. Mi ci fiondai e presi la chiave, pochi passi e raggiunsi l'uscita. La girai nella serratura con le mani che mi tremavano in preda al panico.

Non osavo immaginare cosa mi avrebbe fatto se mi avesse acchiappata di nuovo.

Aprii la porta e corsi fuori, con la sua voce che mi fece tremare persino le ossa.

<<Non fuggirai mai da me, Geneviève!>>

Piangendo e tremando per la rabbia iniziai a scappare a perdifiato attraverso il corridoio.

Come poteva essere successo?

Ero stata stuprata dall'uomo che amavo.

E a lui era piaciuto. Lo avevo letto nel suo guardo. Aveva provato piacere nel vedermi terrorizzata sotto al suo corpo.

E in un attimo capii. Capii perché le altre domestiche non volevano parlare di lui. Capii perché nessuna mi aveva detto il motivo per cui si faceva chiamare padrone.
Erano terrorizzate.

Lui era una sirena. Un semidio a caccia di donne.

Era uno schifoso stupratore capace di ammaliarti con il suo fascino e portarti con sé in un vortice di terrore.

Nella mia corsa sfrenata verso le mie stanze, mi schiantai contro un corpo.
Mi prese al volo: non mi aveva vista arrivare come io non avevo visto lui. Per evitare di cadere entrambi, si appoggiò con le spalle su un muro, reggendomi tra le braccia per non cadere a terra di faccia.

Per un attimo fui certa che mi ero gettata di nuovo tra le braccia di Alexander. E che lui me l'avrebbe fatta pagare cara.

Ma non era Alexander.

Era una persona che non vedevo da cinque anni.

Mi tratteneva ancora tra le sue braccia quando alzai gli occhi per incontrare i suoi. Avevo riconosciuto gli abiti nobili, ma lui non aveva ancora riconosciuto me.

Ci osservammo esattamente come avevamo fatto anni prima. Gli occhi azzurri brillarono e i capelli ricci e biondi gli finirono sul viso.

<<Geneviève?>>

<<Signorino Juan...>>

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