.57. Scontro finale.

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Barcellona,
19 Marzo 1809.

Urlai e sentii la gola diventare essa stessa una brace fatta di fiamme.

Il capo mi strattonò. <<Andiamo!>>

<<No!>>

Scesi le scale, diretta di nuovo verso quella maledetta coltre di fumo, ma a metà strada vidi Juan correre nella mia direzione.

Ma senza Sara.

Si gettò su di me e tentò di riprendere fiato, ma il fumo era così fitto che non c'era più aria pulita. Lo vidi piangere, i ricci biondi diventati un ammasso di cenere scura.

<<Credo... preso... Sara...>>

<<No...>> sussurrai, e spostai gli occhi di nuovo lì.

Non si vedeva niente. Era impossibile riuscire a distinguere alcuna forma, e nel giro di pochi istanti anche la scala sarebbe diventata in quel modo.

Poi vidi qualcosa muoversi. Attirai l'attenzione di Juan, e insieme aspettammo un altro movimento. Se Sara era ancora viva, forse saremmo riusciti a salvarla.

Ma la figura che emerse dalle ombre non era di una ragazza ferita e disperata alla ricerca di una via di fuga. No. Era un uomo freddo e calcolatore, con un ghigno stampato sul viso, come se ormai quelle labbra non fossero state più capaci di assumere altra forma. Salì a gattoni, stringendo le dita sul legno e vidi quelle stesse unghie diventare rosse di sangue per quanto stesse stringendo forte. Come se quelle travi fossimo noi e non un ammasso di legno che stava per diventare cenere. Come se fossero i nostri colli inermi bloccali nelle sue fauci.

<<Non ti libererai mai di me, mia Geneviève!>> guaì a denti stretti e, nonostante il fischio, udii lo stesso ogni singola parola.

Seppi per certo che da quel momento in avanti, quella visione mi avrebbe fatto visita ogni notte per ricordarmi di lui. Di ciò che mi aveva fatto. Di ciò che ero riuscita io a fare a lui.

Una piccola ricompensa a nome di tutte le ragazze che aveva posseduto e fatto soffrire.

Nel frattempo, però, quella visione mi aveva paralizzato le gambe. Non riuscivo più a muovermi, e i miei occhi non riuscivano a staccarsi da quelli del padrone. Come una calamita mi stava attirando a sé. Come il canto di una sirena attirava i marinai. Come una falena era attratta dalla luce.

Lui per me sarebbe sempre stato questo. Una fonte di pericolo di cui sarei sempre stata inesorabilmente attratta. Lo odiavo per quello che mi aveva fatto e per quello che mi stava facendo anche in quel momento. Juan mi strattonava, mi invogliava a continuare a salire, ma non mi muovevo.

Un'altra figura però emerse dall'ombra e si gettò su Alexander. Lo tenne fermo con un braccio attorno al collo e le gambe ben salde sulla schiena. Riconobbi la figura di Sara solo quando alzò il viso verso di noi. Non piangeva, non stava più soffrendo. I capelli riversi sul viso la rendevano più grande, e l'espressione che aveva stampata sul viso la rese troppo simile a suo padre.

Capii che stava finalmente facendo ciò che avrebbe voluto fare da chissà quanto tempo, e non le importava più di nulla. Non del proiettile nella gamba, non delle fiamme alle loro spalle. Niente. Solo strangolare quell'uomo con le proprie mani.

Davanti ai nostri sguardi sorpresi e stremati, Sara riuscì in qualche modo ad alzarsi e a sollevare anche Alexander. Continuava a tenerlo stretto dal collo, e lui non sembrava riuscire a capire cosa stesse accadendo.

Però non mi sorpresi quando portò l'altra mano alla gola di suo padre, recidendola con un coltello.

Il sangue schizzò ovunque e, prima che entrambi i loro corpi venissero avvolti dalle fiamme, Sara mi sorrise. 



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