Alvise

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Ho il cervello completamente in pappa.

È la notte di capodanno, sono disteso sul mio letto con il culo magro e senza forma appoggiato sul cuscino nel quale dormo, le gambe appoggiate parallele al muro. Come per Natale, questo è il secondo capodanno che passo da solo e devo dire che me lo sto godendo alla grande. Sono solo in casa. Mia mamma è come sempre di turno in ospedale e festeggerà con le sue colleghe e forse per sentirsi meno in colpa mi ha lasciato sul comodino una bottiglia di spumante che non aprirò.

In casa regna il silenzio e l'unico rumore che sento è il vociare dei vicini che, a quanto pare, hanno ospiti e gli schiamazzi allegri e festaioli che provengono dalla strada.

Ma prima di sentire quei suoni, prima di allungare l'orecchio oltre i muri di casa, quello che sento veramente è il mio respiro e il battito del mio cuore. Perché ancora respiro, ancora sono vivo.

E mentre sono steso sul letto da solo a ricordarmi che mi è stata data un'altra possibilità, l'unica cosa che mi viene in mente sono due occhi ghiaccio. Non riesco a togliermelo dalla mente. Non riesco a togliermi dalla testa la sensazione di pace che mi ha dato essere stretto tra le sue braccia e sentire il suo calore. Lo stesso calore che ora bramo incredibilmente.

Non so se sia perché non ho nessuno che mi abbraccia o se perché è proprio lui. So solo che sono state le sue braccia a darmi speranza e solo ora mi rendo conto di quanta ne desideri ancora. Ho bisogno di rivederlo, ma soprattutto ho bisogno di sapere se è lui che mi può salvare dal mio mondo oscuro. Ho bisogno di capire se può essere la chiave che riaprirà il mio cuore.

Vi starete dicendo che è troppo da pensare o da sperare e che riporre in lui tutte queste mie aspettative e i miei grandi progetti, avendolo visto una volta sola, può essere da pazzi. Ma certe cose si capiscono solo scambiandosi uno sguardo. E lui appena mi ha visto, appena mi ha guardato, ha dato tutte le risposte a queste mie domande. O meglio, mi ha dato l'impressione che potesse essere quell'appiglio che stavo aspettando. Ora mi rimane solo da capire se c'ho visto giusto o sbagliato. E spero tanto di aver visto bene. Per questo ho bisogno di rivederlo.

Torno al Limbo la prima settimana di gennaio. Venerdì, sabato e domenica, ma lui non si vede. Non mi arrendo. Lunedì sono ancora a casa da scuola, ma anche se non lo fossi stato non mi avrebbe fermato nessuno dall'andare a cercarlo. Non so cosa pensi mia mamma nel vedermi uscire così spesso ultimamente, visto che a parte l'andare a scuola non vado più da nessuna parte. Al momento però non ho voglia di raccontarle niente. Anche se prima o poi qualche spiegazione gliela dovrò dare.

Mi siedo al bar, prendo la mia solita coca e aspetto. Sono le nove e mezza e ormai so che lo spettacolo comincia tra mezz'ora.

Ho lo sguardo rivolto verso la sala, sto guardando le cameriere fare avanti e indietro in mezzo a tutti i tavoli bui, quando all'improvviso sento la nuca formicolare e dei brividi scorrermi lungo le braccia. Non so come sia possibile, ma è come se il mio corpo si fosse accorto del suo arrivo prima dei miei occhi e del mio cervello.

Mi giro verso l'entrata, ma non noto nulla a parte la clientela che entra un passo dopo l'altro. In effetti il personale avrà un'altra entrata, solo non so dove possa essere. Inizio a far girare lo sguardo a destra e a sinistra, fino a quando è la sua voce a raggiungere me e non il contrario.

"Ehi Laura! Come stai?".

Mi giro lentamente e lo vedo a due sgabelli dal mio. Indossa un paio di jeans chiari dall'effetto consumato che gli calzano a pennello, una giacca sportiva nera e in testa ha un berrettino di lana bianco con una fascia azzurra, come se volesse richiamare il colore dei jeans. In spalla ha uno zaino giallo. Giallo? Mamma mia! Il problema è che gli dona.

L'incrocio dei nostri passiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora