Creating what we can't reverse, nothing will ever be the same again

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Iris aveva passato tutto il pomeriggio ad arrovellarsi il cervello con pensieri contrastanti. Non sapeva nemmeno lei cosa fare, perché – soprattutto – non era in grado di decifrare perfettamente il livello di infatuazione che provava per quell'uomo. E aveva paura, una di quelle potenti che non ti fanno pensare ad altro che al buio pesto cui stai andando incontro.

«Smetti di ragionare e vivi una buona volta le occasioni che ti si presentano sul cammino...» erano state le ultime parole di Gale, prima di andarsene, a fine turno; l'aveva trovata più volte persa in sè stessa e, ovviamente, aveva capito il motivo. Conosceva Iris abbastanza bene da intuire ogni piccola sfaccettatura dei discorsi mentali che si stava facendo. La conosceva sufficientemente da vedere chiaramente il terrore nei suoi occhi, ogni qual volta provava a convincersi che buttarsi e vivere davvero senza farsi troppe paranoie poteva essere una soluzione.

E poi, senza che se ne rendesse conto, il turno era finito, mezzanotte era alle porte e ancora non aveva la benché minima idea di cosa dovesse fare. Si fermò per un istante di fronte allo specchio del bagno, dopo essersi cambiata, e si prese il tempo di un lungo respiro. Le dita stringevano con un po' troppa forza i bordi cesellati del lavandino.

«Vivere le occasioni...» si ripeté, fissandosi intensamente nelle iridi scure. «E se poi le cose dovessero andare male?»

Sbuffò, odiandosi per l'innata capacità di attirare a sé solo situazioni potenzialmente disastrose, e perché era ormai consapevole che, di lì a poco, sarebbe stata di fronte a quella camera e avrebbe fatto ciò che, se fosse stata sana di mente, non si sarebbe mai sognata di fare.

Nel frattempo, Mark percorreva in taxi il tragitto dallo stadio all'albergo; quel giovane ragazzo di origini indiane al volante stava andando decisamente troppo piano per i suoi gusti. L'elegante scarpa nera ticchettava ritmicamente sul tappeto consunto della vettura, segno che l'impazienza e la nevrosi lo stavano divorando, ma ancora di più Emma, all'altro capo del telefono, che lo tartassava di domande alle quali non aveva voglia di rispondere.

«Allora sabato rientri a casa?» gli stava domandando, mentre Mark lasciava al vetro del finestrino fresco il compito di tranquillizzarlo un po'. Come diavolo faceva a sapere se la settimana successiva sarebbe tornato, quando non sapeva nemmeno cosa sarebbe successo di lì a pochi minuti?

Iris sarebbe successa? Lei e le sue labbra sulle proprie sarebbero successe? I suoi occhi languidi pieni di desiderio? Le sue mani tra i capelli...

Non poteva pensare a un'altra donna – e a quello che gli provocava ad ogni livello psicofisico – proprio mentre stava parlando con la sua compagna. Era ignobile, sbagliato e vergognoso, ma – no! – lui non si sentiva in nessuno di quei modi, e si malediceva per questo. Non si era mai sentito in colpa tutte le volte che aveva finito con il rotolarsi tra le lenzuola insieme a delle donne qualunque, per cui non provava altro che una semplice, fugace, puramente sessuale attrazione; perché mai avrebbe dovuto farlo ora che per quella Iris sentiva ben altro – anche se non riusciva ancora a capire cosa, esattamente?

«Ci provo, Em, ma non ti prometto niente. Lavoriamo venerdì sera e non so...» lei non gli fece nemmeno finire la frase. Mark percepì la frustrazione della donna nel sospiro appena soffocato che gli giunse dall'altoparlante dell'apparecchio. Non poteva certo biasimarla, non tornava a casa da più di un mese. Eppure lei sapeva quanto quel successo ritrovato fosse importante per lui, quanto quella fosse la vita sempre a mille che aveva sempre sognato di tornare a fare. Sapeva chi era, fin dall'inizio.

«Ok, tranquillo. Fammi sapere...» si era limitata a dire, e aveva riagganciato. Fu in quel momento, quando sentì la chiamata chiudersi e quel tu-tu inquietante rimbombargli nelle orecchie, che un senso viscido di inquietudine e risentimento per se stesso si fece largo nel petto. Per un momento, uno solo, si sentì davvero una merda.

«Siamo arrivati, signore. Sono ventisette sterline e quaranta» Mark si volse verso il tassista e gli passò due banconote da venti. «Tenga il resto» sussurrò, prendendo la borsa e uscendo dall'auto con l'aria affranta, poco consona a una popstar che aveva appena mandato in visibilio un intero stadio per più di due ore.

Una volta entrato nell'albergo, però, il suo sguardo era già fisso sulla reception. Era passata la mezzanotte per cui sapeva che lei non poteva essere lì, ma quel movimento del viso era diventato ormai un'abitudine e, nonostante i pensieri cupi – generati dal suo comportamento riprovevole nei confronti della donna che lo avrebbe reso padre –, non riuscì ad evitarlo.

Quando fu sull'ascensore e iniziò a salire verso il quinto piano, però, la sua mente venne annebbiata nuovamente dal viso pulito e dolce di Iris, dalla sua voce e da quelle labbra carnose che aveva agognato per un mese, ogni giorno e ogni notte. Il desiderio di vederla di fronte alla sua porta era troppo grande, così grande da far sparire i turbamenti di poco prima. Strinse le dita ancora più forte intorno alla maniglia della borsa, fino a far diventare bianche le nocche. Era nervoso, più di quanto avrebbe immaginato.

Poco dopo stava già camminando verso la sua stanza. Avanzava lentamente, a pugni chiusi. Svoltò l'angolo del corridoio e alzò lo sguardo, fino a quel momento puntato sulla pregiata moquette del pavimento, ma non c'era nessuno ad attenderlo. Quelle pareti sembrarono farsi sempre più strette intorno a lui: anche se per un breve istante aveva sperato che la ragazza non ci fosse, realizzare che davvero Iris non era lì fu... doloroso. Sì, semplicemente doloroso.

La chiave magnetica aprì la serratura elettronica. Mark, con un gesto molle, abbassò la maniglia e il corpo spinse la porta fino a farla spalancare. La oltrepassò, e pochi passi dopo quel dolore che ancora gli toglieva il respiro si trasformò in sorpresa, sollievo e, infine, in una gioia che non credeva avrebbe provato così intensa... così potente.

«Sei... sei qui» riuscì solo a dire, guardandola. Era bellissima, accarezzata dalla stoffa leggera del vestito fiorato che indossava. Lei gli sorrise un po' timida, un po' compiaciuta, forse dall'espressione estatica che doveva avere in quel momento dipinta in volto. Mark abbandonò la borsa a terra con noncuranza e subito dopo si era già avventato su quelle labbra rosse che lo avevano tentato dal secondo in cui i suoi occhi vi si erano appoggiati.

Iris aveva tante di quelle cosa da dire – il suo cervello era come un fiume in piena –, e forse anche lui ne aveva. In un paio di occasioni in cui si erano concessi il lusso di prendere respiro avevano anche provato a parlare, ma la potenza di certi desideri è incontrastabile se fomentata dall'attesa. E loro avevano atteso parecchio.

«Dopo – la rassicurò lui, dolcemente –, abbiamo tutto il tempo, dopo», mentre le mani vagavano su quel corpo che – incredibilmente – senza i vestiti addosso era anche più bello di quello che aveva immaginato.

Iris aveva tante – troppe – cose da domandargli. Troppi punti di domanda irrisolti a cui, salendo verso la camera una manciata di minuti prima, si era promessa avrebbe dato risposta. Ma contro di lei e la sua volontà c'erano quelle labbra abili e tentatrici; per non parlare di quel mare azzurro pieno di lei che erano i suoi occhi. E, se voleva dirla tutta, c'erano anche quei capelli ancora un po' umidi: a loro, le sue dita non riuscivano proprio a resistere. Così, tra un sospiro e un gemito soffocato, rispose con un sussurro su quella bocca bella e accogliente: «Va bene, dopo».

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