22. Emergenza

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Helen correva nel buio con solo la torcia elettrica a indicarle la strada, non sapeva se Speirs la stesse seguendo e continuava a ripetersi che non le interessava. Aveva molte altre cose a cui pensare, eppure il modo in cui l'aveva trattata pochi minuti prima continuava a farle ribollire il sangue.
Nonostante la giacca poteva ancora sentire l'aria fredda farsi largo sotto di essa, forse a forza di correre si sarebbe scaldata, ma più si allontanava dal cento della cittadina, più la brezza si faceva insidiosa.
Non sapeva che ore fossero, non sapeva nemmeno se la direzione fosse quella giusta, ma continuò ad avanzare imperterrita. Winters e Moose si sarebbero incontrati quella sera e se il nuovo Capitano della Easy era stato ferito da una sentinella probabilmente si stavano aggirando nella cerchia più esterna del campo dove Richard era solito passeggiare seguendo la linea della ferrovia in disuso che usciva dalla città. Sperava di aver avuto l'intuizione giusta perché non aveva con sé una radio e non sarebbe tornata indietro a chiedere informazioni a Speirs.
Provò ad accelerare la corsa quando a pochi metri da sé vide un paio di luminosi fanali puntati verso la strada. Riconobbe subito la forma scavata di una Jeep con accanto un'ambulanza, entrambe erano ferme e sembravano non avere alcuna fretta.
Più si avvicinava e più riconosceva le figure di spalle che sembravano in trepidante attesa, poi un paio di veloci fari gialli le tolsero per un momento la vista. Senza fermarsi si portò le mani davanti agli occhi cercando di ripararsi da quella luce accecante.
«Che succede?» domandò avvicinandosi a Roe già pronto a intervenire.
«È l'ultima ambulanza che abbiamo e non vogliono farla allontanare oltre» rispose lui indicando con un dito le sentinelle del posto di blocco che loro malgrado stavano facendo rispettare gli ordini «Il tenente Welsh è andato incontro al tenente Winters e a Moose».

Appena i fari si fermarono a pochi centimetri da loro si mossero veloci verso la Jeep, il momento delle chiacchiere era finito.
Moose era semicosciente, sdraiato su una barella di fortuna e coperto di sangue. I suoi occhi vagavano nel cielo buio come se stessero cercando di seguire qualcosa, ma nulla si muoveva sopra di lui.
Winters non ebbe bisogno di domande, rispose a tutti gli interrogativi che il medico ancora non aveva avuto il tempo di porgli.
«Due colpi, uno alla gamba sinistra e uno alla spalla destra» disse indicando i punti dove lui e Harry avevano provato ad applicare le bende ormai imbevute di sangue «La sentinella era a dieci metri, potrebbero non essere troppo profondi» quella era l'unica speranza che avevano.
Il ragazzo che aveva sparato era un giovane rimpiazzo appena arrivato, aveva sentito dei rumori, si era spaventato e aveva fatto fuoco prima di fare le domande. Era lontano e con poca mira, i proiettili non erano andati molto in profondità ne avevano colpito organi vitali, ma erano comunque due colpi di fucile.
«Quanta morfina?» domandò il dottore dopo aver aperto le porte dell'ambulanza per far scivolare dentro la barella posata sul cofano dell'auto.
«Due o tre fiale» rispose Harry mentre aiutava Winters a spostare il ferito.
Avevano tanti uomini intorno pronti ad aiutarli, ma quello non era un soldato qualunque, era un loro amico e se ne sarebbero occupati personalmente.
Helen osservava la scena zitta senza interromperli, sentiva la gola secca come se stesse ancora correndo e il suo cuore non sembrava rallentare.
«Due o tre fiale?» domandò il dottore scioccato spostando lo sguardo dal ferito a Harry «Volevate ucciderlo?!» esclamò urlando mentre afferrava un lato della barella, ma qualcosa in quello spostamento andò storto.
La gamba di Moose ricominciò a sanguinare copiosamente e le garze che tamponavano la ferita erano completamente inutili. Helen osservò per un brevissimo istante il liquido rosso zampillare, giusto il tempo di un respiro, poi le sue mani si mossero automaticamente. Allargò lo strappo dei pantaloni e inserì un dito nella ferita cercando di bloccare la fontanella di sangue.
Roe fissò la mano della donna, chiunque al posto suo avrebbe esitato e persino lui lo aveva fatto, ma Helen era diversa da tutti loro. Dalla borsa estrasse una fiaschetta di alcool e una corda di cuoio.
«La versi sulla ferita» disse lasciando il contenitore in mano a Winters mentre annodava il laccio alla coscia, vicino ginocchio, per bloccare l'afflusso di sangue al polpaccio. Solo dopo aver aperto il pantalone si era accorto quanto quel foro fosse brutto.
Winters ubbidì e versò il liquido trasparente sulla mano della donna, ormai completamente rossa, cercando di disinfettare anche la carne lacerata, poi scambiò un breve sguardo con lei.
Era sorpresa quanto tutti loro di quello che aveva fatto, ma non sembrava infastidita dall'avere le dita dentro un corpo dilaniato.
Moose quasi non si era accorto di nulla, solo per un istante la sua gamba aveva avuto uno spasmo, ma probabilmente era involontario. Ormai aveva perso coscienza e troppo sangue, non avrebbe avuto le forze per urlare nemmeno se straziato dal dolore.
«Carichiamolo, con calma questa volta» ordinò Roe entrando nell'ambulanza e aiutando la donna a salire accanto alla barella.
Non era sicuro che il laccio sarebbe stato sufficiente, il proiettile aveva lacerato quasi interamente il polpaccio causando una copiosa perdita di sangue e l'unica cosa che per certo impediva al soldato di prosciugarsi era la mano di Helen.

«Come sta?» domandò la voce del tenente Speirs che si faceva largo tra le sentinelle accalcate.
Aveva seguito Helen a distanza e senza mai perderla di vista nonostante corresse piuttosto veloce. Riconosceva che il suo comportamento non era stato dei migliori e non voleva peggiorare con ulteriori parole una situazione già delicata, ma non l'aveva mai lasciata realmente sola.
Si fermò davanti allo sportello dell'ambulanza ancora aperto e vide Helen seduta accanto al corpo immobile di Moose, la sua mano era posata sulla gamba del soldato e il suo dito premeva ancora sulla vena dentro la carne.
Per un secondo, contro ogni logica, aveva creduto che anche lei fosse ferita vedendola sporca di sangue fino ai gomiti, poi lo sguardo preoccupato venne cancellato dalla solita espressione impassibile non appena realizzò la situazione.
La donna ricambiò la sua occhiata, dura e fredda, e per la prima volta fu come essere nuovamente cosciente di quello che aveva intorno. Non aveva smesso di guardare il suo dito scomparire in quella grossa macchia rossa temendo che avrebbe ripreso ad allargarsi da un secondo all'altro. Non aveva pensato a quello che stava facendo, lo aveva fatto e basta. Meccanica, come durante uno scontro a fuoco, la sua mente aveva lavorato più svelta della sua coscienza e aveva applicato le lezioni del corso di primo soccorso.
Helen abbassò nuovamente lo sguardo, non aveva certamente dimenticato quello che era successo poco prima ma era troppo impegnata a tenere in vita un amico per poter dedicare a lui anche un solo istante dell'attenzione che non meritava.
«Sopravvivrà» dichiarò schietto Roe chiudendo davanti a sé le porte dell'ambulanza e ordinando all'autista di partire.

A Helen parve di tornare a respirare solo nel momento in cui il furgone si mise in moto. Ci avrebbero messo pochi minuti ad arrivare all'ospedale dove Moose avrebbe avuto tutte le cure necessarie per sopravvivere, intanto potevano solo controllare che non smettesse di respirare.
«Ce la farà davvero?» domandò la donna l'amico seduto sulla panca dell'ambulanza mentre controllava il polso del Tenente.
Eugene Roe alzò lo sguardo dal suo paziente e lo ripose sul viso di Helen, era preoccupata e stanca, eppure la determinazione sembrava non abbandonarla mai.
«Credo proprio di sì» rispose senza però promettere nulla «Nonostante quello che sembra è stato fortunato».
Helen annuì cercando di credere a quelle parole con tutte le sue forze.
Era accaduto tutto nel giro di una manciata di minuti che le erano sembrati ore, e in altrettanti minuti sarebbe tutto finito. Sarebbero arrivati all'ospedale, le avrebbero fatto sfilare il dito dalla ferita e un'infermiera avrebbe preso il suo posto. I medici avrebbero fornito al Capitano le migliori cure e sarebbe stato trasferito in Inghilterra appena le sue condizioni fossero diventate stazionarie.
«Helen» la richiamò Roe «Tutto bene col tenente Speirs?».
A nessuno era sfuggita l'occhiata che si erano lanciati appena prima che l'ambulanza partisse. Sapeva che quello non era il momento migliore per quella conversazione, ma non avrebbero avuto altre occasioni di parlarne se lei non fosse stata consapevole di essere stata colta sul fatto. Non era semplice curiosità, un pettegolezzo con cui distrarsi, Roe teneva davvero alla donna e vederla turbata per colpa dell Tenente era preoccupante, ma non insolito.
«Tutto come deve essere» rispose lei quasi offesa dalla domanda.
Eugene Roe era un suo amico, un'amicizia che andava oltre l'essere nello stesso gruppo, e sapeva che quella non era un'insinuazione maliziosa ma comunque non le era sfuggito il velato accenno di critica nel suo tono.
Roe non domandò più di nulla anche se non si era realmente accontentato di quella risposta.
Era impossibile non notare il particolare comportamento che riservavano l'uno all'altra. Era sempre come se una qualche tensione li trattenesse, un braccio di ferro a cui nessuno dei due voleva cedere e che li portava a scontrarsi quasi ogni volta che parlavano. Alcuni degli altri ufficiali facevano finta di nulla, qualcuno più spigliato come Nixon aveva fatto domande in giro, ma tutti erano preoccupati che quelle liti portassero entrambi a superare i limiti.

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