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1966.

Avevo tredici anni, perciò avrei dovuto iniziare la scuola, mischiarmi con altri bambini, fare finta di essere normale. Ci provai o almeno, era quello che dissi ai miei genitori per rassicurarli. Io e mia madre non avevamo più preso il discorso su mia sorella, però era nell'aria.

Benché io sia stata sempre a distanza dai miei coetanei, il primo giorno di scuola non potei fare lo stesso. Mamma mi sincerò che sarebbe andato tutto bene. "Sii te stessa e non pensare a quello che sta succedendo dentro di te. Così accrescerai solo le tue paure". Le avevo parlato di quello che pensavo di poter fare: addormentare le persone, ascoltare rumori o voci a metri di distanza. Lei mi aveva preso il viso tra le mani. "Non importa di tutto quello che credi o non credi di saper fare. Per me sarai sempre Lauren, la mia bambina". Avanzai lungo il corridoio, raggiungendo l'aula. Mi sedetti al mio banco, restando immobile per tutte e cinque le ore. Non incrociai lo sguardo di nessuno, non toccai nulla. Per tutto l'anno scolastico, ebbi il terrore di avvicinare chiunque. Un giorno, vicino al mio armadietto, due bambini si stavano prendendo a pugni. Noi spettatori non potevamo far altro che guardare, aspettando che qualcuno intervenisse. I bulletti invece, sperarono fino all'ultimo in un pestaggio completo. I maestri e il preside sembrarono essersi dissolti. Esitai nell'intervenire. Non volevo far del male a nessuno. Una bambina mi anticipò, mettendosi tra i due. "Ragazzi, smettetela. Non serve prendersela così per un giocattolo" con una mano sulle loro spalle, riuscì a precludere lo scontro. I due bambini si allontanarono, stringendosi persino la mano. Prima di poter vedere lei andare via, decisi di fermarla. "Ehi, sei stata grandiosa prima" si limitò a sorridermi. Aveva i capelli scuri e gli occhi azzurri. "Avrei voluto farlo io, ma...". "Già, è sempre difficile dover scegliere da che parte stare". Girò i tacchi, tornando in classe. Solo qualche giorno dopo scoprii il suo nome. Si chiamava Kayla Silverfox e, all'apparenza, sembrò una bambina come tutte le altre. Tornata a casa, mia madre non perse tempo nel chiedermi com'era andata la giornata. Papà era ancora a lavoro, perciò potei parlare nella più completa tranquillità. "C'è stata una rissa. Volevo fermarli, ma avevo paura di quello che sarebbe potuto succedere...".

"E poi?".
"Un'altra bambina ha avuto la mia stessa idea, ed è riuscita a farli smettere".
"Visto? Non devi preoccuparti".
"E se potessi aiutare qualcuno, con quello che riesco a fare? Vorrei poter dare una mano e...". Mamma mi prese la mano, stringendola nelle sue. "Tesoro, sono assolutamente certa di questo. Tu arriverai lontano e questi momenti saranno solo un flebile ricordo nella tua memoria". Non riuscì a risollevarmi, quindi si allontanò, andando verso il forno. "So come farti stare meglio". All'improvviso, le sue dita si trovarono sul piano cottura. Con l'altra mano girò la manopola. "Mamma, che fai?" le urlai contro, spaventata. Le sue dita si accesero, emanando scintille gialle e rosse. "Cosa stai facendo?".

"Sono come te, amore".
"Cioè?". Venne verso di me, porgendomi la mano. "Guarda!". Nella sua mano destra si creò una fiamma, che poi spense con un semplice schiocco di dita.

"Hai visto? Non sei l'unica ad aver paura dei propri poteri"

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"Hai visto? Non sei l'unica ad aver paura dei propri poteri". Sgranai gli occhi, turbata. "Mi stai dicendo che puoi accendere un fuoco con le mani?".
"E non solo. Posso appiccare un incendio a metri di distanza. Mi basta pensare ad un luogo e...".
"Voglio vederlo".
"Un'altra volta, amore. Tuo padre sta per tornare. Lui non sa nulla di tutto questo". Si ricompose, aggiustandosi il grembiule e lavandosi le mani. "L'unica cosa negativa è l'odore di cenere che si impregna nella pelle".

"Come hai fatto a nascondergli una cosa simile per quasi trenta anni?".
"Si chiama matrimonio. Un giorno lo capirai". Papà rincasò dieci minuti dopo, come di consueto. Trascorsero i giorni, le settimane e i mesi. A scuola, ero più sola che mai. Camminavo lungo il corridoio, con lo zaino in spalla e la testa piena di chiacchiericci e rumori. Il secondo anno andò meglio. Sotto insistenza di mia madre, avevo deciso di farmi degli amici. Tra questi c'era Marshall, uno più grande di me che inizialmente mi aveva avvicinato per la mia t-shirt di Jimi Hendrix. Dopodiché è diventato il mio ragazzo, il primo. Colui che doveva essere il termine di paragone per tutti quelli che sarebbero venuti dopo. In realtà, lo fu in maniera negativa. Iniziai a non fidarmi di quelli più grandi di me, perché pretendevano troppo. La mia buona volontà è durata dieci anni, finché non ho conosciuto Remy, di ben sei anni più grande di me. Non ho sbagliato a dargli una possibilità. Non me ne sono pentita, ma è ancora presto per dirlo.

𝐁𝐞𝐜𝐨𝐦𝐢𝐧𝐠 𝐚𝐧 𝐗-𝐌𝐞𝐧 | 𝐋𝐮𝐜𝐲 𝐁𝐨𝐲𝐧𝐭𝐨𝐧Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora