7.

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1978.

Mi metto immediatamente alla ricerca di mia sorella. Raven Darkholme, è questo il suo nome ed è tutto quello che ho su di lei. Nient'altro. Nessun'indirizzo, nessun accenno al suo problema. Il motivo per cui i miei genitori l'hanno abbandonata. Non l'ho chiesto, forse perché non volevo saperlo. Mi sarei capacitata dell'egoismo di mio padre. Se avesse scoperto delle mie abilità, avrebbe sicuramente abbandonato anche me, senza scrupoli. Per diverso tempo, non ricevo riscontri ma inaspettatamente trovo qualcosa. Il suo nome non è molto comune, quindi appena ho qualche indizio, capisco che si tratta di lei. Si trova a Berlino al momento. Quindi prenoto il primo volo diretto, trovandomi lì in dieci ore. Mi muovo risoluta tra le strade, leggendo attentamente la mappa che mi sono preparata precedentemente. Trovo il Café Bleibtreu dopo diversi isolati. Mi accomodo all'interno, notando una ragazza bionda dietro il bancone. Sta servendo delle birre in due boccali, sorridendo. Il cliente le porge una banconota. "Vielen dank!" risponde lei, salutandolo. 

Tiro un grosso respiro prima di avvicinarmi

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Tiro un grosso respiro prima di avvicinarmi. "Sag mir!" guardandola negli occhi, riconosco lo sguardo di mia madre, il sorriso di mio padre. È lei. Dovrebbe avere quaranta anni, ma sembra una mia coetanea. "Sto cercando Raven Darkholme" si fa subito seria, ingoiando la saliva. "Ha sbagliato posto. Qui non c'è nessuno con quel nome" risponde, facendomi sentire il suo accento inglese. "Raven!" la chiamano dal retro e la vedo stringersi nelle spalle. "Chi la cerca?". "Mi chiamo Lauren. Ho urgente bisogno di parlare con lei". Faccio finta di non aver capito chi è e intanto accetto di prendere una birra. Finito il turno, la vedo sfilarsi il grembiule e venire da me. "Come hai detto che ti chiami?". "Lauren. Lauren Orwell". Sì, ho cambiato cognome dopo l'incendio a casa dei miei. Avevo paura. Mi richiama da parte, facendomi sedere al tavolo. "Senti, non so chi ti abbia dato quel nome ma hai sbagliato...". Frugo nella mia borsa, per poi porgerle la foto. La osserva attentamente, sgranando gli occhi. Dopodiché la gira, leggendo nome e data sul retro. "Chi te l'ha data?". "Mia madre". "E lei come faceva ad averla?". Prendo tempo, sentendo uno strano nodo alla gola. Ci somigliamo molto, specialmente per i capelli chiari e l'altezza. "Io l'ho saputo solo cinque anni dopo la mia nascita. Non sapevo della tua esistenza...". La vedo turbata, mentre si rigira la foto tra le dita. 

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"...penso che tu sia mia sorella". "No.." mugugna, soffocando una risata "...io non ho sorelle, non ho una famiglia. Mi hanno ritrovato sul marciapiede di un convento, quando avevo appena due settimane di vita". "Lo so, ti hanno abbandonato ma...". La vedo alzarsi di scatto, agitando la foto in aria. "Senti, se tutto quello che mi stai dicendo è vero, vuol dire che non mi hanno mai voluta e a me non importa di quello che hanno fatto. Ho avuto comunque una vita perciò, tante care cose" lascia la foto sul tavolo, preparandosi ad andare verso l'uscita. "Io sono come te". Mi limito a dire, sperando di attirare la sua attenzione. Mi volto, vedendola irrigidirsi. Mi guarda da sopra la spalla, gli occhi socchiusi. "Che intendi dire?". "Quello che stai pensando". Si guarda intorno, poi viene di corsa da me tirandomi per un braccio. "Vieni fuori" la seguo in un vicolo buio. "Sei una telepate?" serro le sopracciglia, confusa. "No!". "Allora perché sapevi quello che stavo pensando?". "Non lo so, comunque non riesco a leggerti nel pensiero. Volevo farti sapere che anche io ho delle abilità". "E tu sai quali sono le mie?" scuoto la testa. 

Mamma non mi ha parlato del suo problema

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Mamma non mi ha parlato del suo problema. Qualsiasi cosa sia, era già visibile nelle prime due settimane di vita. Raven si volta, poi guarda dietro la mia spalla e, sincerandosi che non ci sia nessuno, la vedo tirare un grosso respiro. All'improvviso mi trovo davanti ad uno specchio. Vedo me stessa. "Cosa...". Lei mi guarda, ridendo. "Guarda. È questo quello che so fare e non ho paura a mostrarlo". "Mi stai dicendo che puoi trasformarti in chi vuoi?". Non risponde ma torna a sembianze naturali. Gli occhi gialli che subito ritornano dello stesso colore di quelli di mia madre. "Perciò sei una mutaforma?". "Esatto". Sgrano gli occhi, meravigliata. "Fantastico. Magari avessi io lo stesso potere, potrei controllarlo". Raven viene verso di me, curiosa. "Non è così fantastico. Mi hanno sempre detto di andare fiera di quello che sono, ma dopo vari decenni non riesco ancora ad esserlo". Fa una pausa, infilandosi il cappuccio. 

"Tu invece? Cosa puoi fare?". "Oh, non è così semplice...". Mi dice che ha un appartamento a pochi chilometri di distanza, portandomici. Appena siamo lì, noto quanto sia piccolo ma confortevole. "Da quanto tempo ci vivi?". "Due anni, ed è già parecchio tempo per una come me. Non mi piace stare sempre nello stesso posto". "E prima dov'eri?". "Beh..." mi indica il divano, invitandomi a sedermi accanto a lei. "...sono stata in molti posti dopo aver lasciato...". Mi rivolge uno strano sguardo. "...Ho vissuto gran parte della mia adolescenza a Westchester, poi mi sono trasferita in Russia. Dopodiché a Praga, Edimburgo. New York, Washington ed infine qui". "Aspetta, hai detto Westchester?" Raven annuisce, chiedendomi il motivo della mia reazione sorpresa. "Ci sono stata sette anni fa e mi sono sentita strana, come se appartenessi a quel posto". Lei non mi sembra stranita dalla cosa, anzi. "C'è una persona che abita in quella contea. Qualcuno con cui ho vissuto per venti anni". "Un fidanzato?". Raven soffoca una risata, visibilmente divertita dalle mie insinuazioni. "No, certo che no. È qualcuno come noi, un mutante. La mente più potente dell'intero universo, Charles Xavier". 

"Il nome non mi suona nuovo". "Certo, perché ne hanno parlato alla televisione diverse volte, insieme ad Erik Lehnsherr". "Magneto?" domando, ricordando l'esatto momento in cui ho sentito la notizia alla tv. L'attacco alla Casa Bianca nel '73 da parte di Lehnsherr e delle sentinelle create da Bolivar Trask. "Proprio lui. Ne avrai sentite a bizzeffe di cose sul suo conto. Adesso è anche diventato argomento di studio a scuola". Ne ho sentito parlare. "Quindi tu lo hai conosciuto di persona. Com'è quell'uomo, veramente?". "Proprio come lo descrivono..." prende tempo, portandosi una mano nei capelli "...però è qualcuno che ha sofferto molto, perciò credo che riversi il suo dolore sulla vendetta. Potrebbe essere migliore di così, se volesse". Raven sembra crederci davvero ed io decido di fidarmi. "Allora, non tergiversiamo ulteriormente. Perché sei qui?". Mi domanda all'improvviso, impaziente. "Nostra madre sta male e voleva sapere dov'eri...". 

"No, aspetta. Nostra madre? Non ti ho detto che ti credo. Ti ho fatta venire qui perché dici di essere una mutante, cosa che non mi hai ancora dimostrato". Sospiro, chiudendo gli occhi. Quando li riapro, siamo a casa mia. La nostra villetta a due piani con seminterrato a New York. Raven si guarda intorno. "Aspetta, dove siamo?". "Dove sono cresciuta e dove saresti dovuta crescere anche tu". Le dico di seguirmi, portandola in soggiorno. Da qui possiamo vedere mamma che cucina, papà che la aiuta ad apparecchiare. "Tutto questo è reale?". "Solo se tu vuoi che lo sia". La vedo sorridere, andando verso di loro. Non possono vederci. Siamo come due ospiti invisibili. Raven osserva i nostri genitori, tirando su con il naso. "Le somiglio molto" mugugna, guardando mia madre. "Abbiamo gli stessi occhi azzurri...". Si porta una mano alla bocca, brontolando qualcosa. "Torniamo indietro" dice, singhiozzando. "Che cosa?". "Torniamo indietro, ho detto. Non voglio restare qui un minuto di più".

𝐁𝐞𝐜𝐨𝐦𝐢𝐧𝐠 𝐚𝐧 𝐗-𝐌𝐞𝐧 | 𝐋𝐮𝐜𝐲 𝐁𝐨𝐲𝐧𝐭𝐨𝐧Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora