Capitolo 16.

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Erano passate da poco le 20.

Il sole era ormai tramontato da un po' e aveva lasciato il posto al crepuscolo e all'umidità ricca di afa, tipica delle serate autunnali di Nairobi.

L'ambulatorio si era svuotato e anche Anne e Ron erano andati via.

Aron, invece, stava visitando l'ultima paziente nel suo studio, ma di lì a qualche minuto sarebbe tornato a casa anche lui.

Io, dal mio canto, non avevo il coraggio di uscire dal mio studio e affrontare la realtà.

Avevo rimandato quel momento da tutta la giornata.

Pur di non incrociare Can, avevo saltato la pausa pranzo e avevo continuato a lavorare, ignorando il continuo brontolio del mio stomaco e le domande di Anne.

Pranzavamo sempre insieme nel piccolo cortile che circondava l'ambulatorio, e non vedermi arrivare alla solita panchina l'aveva insospettita.

Mi ero giustificata dicendo che preferivo portarmi avanti con il lavoro, ma sapevamo entrambe che la verità era un'altra.

Il rumore di alcuni passi nel corridoio mi costrinse a trattenere il respiro per alcuni secondi, ma non appena riconobbi la voce di Aron tirai un sospiro di sollievo.

Come suo solito, senza neanche bussare, spalancò la porta del mio studio e si appoggiò contro lo stipite, guardandomi confuso.

"Cosa ci fai ancora qui?" domandò perplesso, squadrandomi con attenzione.

"Sistemo le ultime cose e vado via anche io" biascicai, fingendo di mettere in ordine la cancelleria presente sulla scrivania.

"Allora ti aspetto, così torniamo a casa insieme" si passò una mano tra i capelli chiari e lanciò uno sguardo furtivo all'orologio.

Era stremato ed ero certa che la stanchezza che gli leggevo incisa sul volto fosse identica a quella racchiusa nel mio viso.

Eravamo due gocce d'acqua.

La passione per il lavoro che ci accomunava, sarebbe sempre stata più forte delle divergenze che ci caratterizzavano.

Realizzai che non potevo rimanere tutta la notte lì dentro.

Magari Can era già andato via da tempo.

O, magari, vedendomi con Aron, avrebbe cambiato idea e se ne sarebbe andato lo stesso, senza più chiedermi niente.

Annuii, esausta, e presi la mia borsa, impaziente di scappare via di lì il prima possibile.

Spensi la luce della lampada e seguii Aron fuori dall'ambulatorio.

Per un attimo, il mio cuore smise di battere e nel silenzio della notte, l'unico suono che riuscivo a sentire era il tintinnio delle chiavi di Aron contro la toppa del portone dell'ambulatorio.

Non c'era nessuno.

Se n'era andato.

Quella pace ritrovata, però, durò solamente una manciata di secondi.

Fu l'illusione di un attimo.

Can era seduto su una panchina.

A illuminarlo c'era solamente la flebile luce arancione del lampione che poteva renderlo irriconoscibile agli occhi di chiunque, ma non ai miei.

Era seduto alla stessa panchina dove, ogni giorno, io e Anne passavamo la pausa pranzo.

Sembrava quasi fosse uno stupido scherzo del destino.

Lo avevo evitato per tutto il giorno, mi ero catapultata nel lavoro per evitare che i miei pensieri tornassero nuovamente su di lui, e invece lui era rimasto lì per tutto il tempo.

Chimera || CanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora