Capitolo 8.

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Avevo conosciuto il professore Giovanni Ferrara ad uno dei suoi convegni che aveva tenuto a Londra quando ero ancora una studentessa all'università.

Il suo carisma, la sua cultura e la sua conoscenza sulla cultura africana mi avevano spinta ad ascoltarlo per due ore ininterrottamente, senza che riuscissi a distogliere lo sguardo dal suo volto colmo di orgoglio.

Aveva proiettato sulla parete i viaggi che aveva condotto, le ricerche che aveva svolto e le persone che aveva conosciuto e aiutato.

Aveva deciso di lasciare l'Italia, il suo paese natale, subito dopo il dottorato ed era partito come volontario in Africa per poter aiutare a ridurre e prevenire la diffusione di malattie sessualmente trasmissibili in una popolazione dove la scarsa informazione regnava sovrana.

Era talmente rimasto affascinato e, allo stesso tempo, sconcertato dalla povertà e dalle pessime condizioni igieniche nelle quali vivevano migliaia e migliaia di persone, che da quel suo primo viaggio la sua vita era completamente cambiata e le sue priorità erano state ribaltate.

Da quel momento aveva cominciato a organizzare convegni di sensibilizzazione verso l'Africa in tutti i paesi occidentali e, nonostante il suo entusiasmo riuscì a trascinarmi verso di lui fin da subito, a ventidue anni l'Africa mi sembrava talmente lontana dalla mia quotidianità che il solo pensiero di dover viaggiare su un aereo intercontinentale per più di otto ore riusciva a riportarmi con i piedi per terra.

Riflettendoci adesso, sono convinta che non fossero i miei ventidue anni il problema, ma la mia mentalità pigra e il mio carattere ozioso non erano ancora pronti per un'esperienza del genere e, in fondo, è stato meglio così.

Sono dell'idea che non bisogni mai sforzare qualcuno a fare qualcosa per cui non si sente ancora pronto.

Ognuno ha i propri tempi, e amare significa anche saperli rispettare e accettare.

Avevo rivisto Giovanni altre tre volte da quel primo convegno, l'ultima volta che ci avevo parlato era stata la settimana prima della fatidica proposta di Mark.

"Tra due settimane riparto per Nairobi per raggiungere altri medici e infermieri che sono già lì. Perché non ti unisci a noi? Ci manca un'ostetrica nell'equipe" mi spiegò Gio con aria sognante, senza mai perdere, però, la compostezza che lo contraddistingueva.

Lì per lì pensavo stesse scherzando o, per lo meno, pensavo che mai avrei potuto prendere seriamente in considerazione quella proposta fatta su due piedi.

"La fai troppo facile tu" risposi divertita, presa alla sprovvista da quella proposta "Qui ho il mio lavoro, la mia famiglia, ho Mark. Come faccio a prendere una valigia e partire?"

Gio mi sorrise e le sue iridi trasparenti mi squadrarono con attenzione.

Eravamo rimasti solamente noi nella biblioteca universitaria.

"Arriverà il momento in cui sarà l'Africa a chiamarti, Cecilia, e a quel punto sarò lieto di portarti con me a Nairobi. So bene che non è una scelta che si fa a cuor leggero, ma arriva un momento in cui bisogna mettere da parte le nostre certezze e la nostra comfort-zone, per riuscire a capire noi stessi e cosa vogliamo"

Probabilmente Gio ci aveva visto chiaro fin dall'inizio e quando, una settimana dopo, lo chiamai per chiedergli se la proposta era ancora valida mi rispose dicendo che si sarebbe occupato lui di prenotare il volo anche per me.

Gio era un uomo molto riservato, non si era mai azzardato a chiedermi il perché di quel mio cambiamento repentino di programma e gliene fui eternamente grata.

Da quando ero arrivata a Nairobi, tra me e Mark era sceso un silenzio pieno di parole non dette che per notti intere avevano affollato il mio sonno, impedendomi di chiudere occhio.

Chimera || CanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora