Capitolo 7.

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Mi ero allontanata dall'infermeria per far sì che Anwar e Adele potessero parlare liberamente senza sentirsi giudicati.

Senza accorgermene, con la testa ancora affollata da troppi pensieri, mi ritrovai nuovamente tra le mura bianche della chiesa e decisi di sedermi tra i primi banchi.

Il forte odore di incenso e di candele investì repentinamente le mie narici e mi sentii improvvisamente destabilizzata.

Regnava un silenzio sovrannaturale e l'unico rumore che riuscivo a percepire era il mio battito accelerato che non ne voleva proprio sapere di rallentare.

Osservai il crocifisso appeso alle spalle dell'altare e mi soffermai sul volto di Gesù che era stato scolpito magistralmente nel legno.

I suoi occhi scuri, stremati dalla sofferenza, proteggevano un barlume di speranza non indifferente e sembrava quasi che stessero guardando me.

Mi guardava con dolcezza.

Come un padre guarda la propria figlia.

Il suo volto era consumato dal dolore, eppure, anche nel momento di più profonda disperazione, non aveva perso la sua fede che lo univa al suo Dio.

Mi inginocchiai ai piedi del banco e unii le mani in segno di preghiera.

Nairobi era governata dall'ingiustizia, tutti si credevano padroni di tutto.

La donna era considerata solamente nell'ambito familiare, dove l'unico ruolo che le veniva riconosciuto era quello in cucina, tra i fornelli, o insieme ai bambini, e se per caso ti trovavi nel luogo sbagliato, al momento sbagliato, diventavi testimone di violenze atroci e disumane.

La prostituzione minorile era all'ordine del giorno e il traffico di bambini, a Nairobi, non era affatto una leggenda metropolitana.

Ero a Nairobi da appena due mesi, eppure mi ero resa conto che a Londra avevo vissuto solamente nella mia piccola bolla di felicità, dove gli unici problemi riguardavano l'università e l'ospedale.

Quando sei nella tua comfort-zone, nulla sembra toccarti e tutti i problemi del resto del mondo sembrano talmente lontani che non ti riescono mai a coinvolgerti definitivamente.

Nairobi mi aveva insegnato a non girare la testa dall'altra parte, quando vedevo qualcuno in difficoltà.

"Serataccia?"

La voce calda di don Julian mi ridestò dai miei pensieri e la sua mano cercò la mia per stringerla in una presa affettuosa.

Annuii e abbozzai un sorriso stanco.

"Adele mi ha raccontato quello che le è successo" continuò atono e mi irrigidii all'istante.

"Il solo pensiero di ciò che sarebbe potuto succedere se non mi fossi trovata lì in quel momento o se quello sconosciuto non fosse intervenuto..." mi tremava la voce, e quando incontrai gli occhi piccoli e scuri di don Julian percepii tutte le mie forze venir meno.

"Ma tu c'eri" intervenne prontamente lui, stringendo maggiormente la mia mano "Adele e Anwar sono fortunati ad averti. Dio ti ha messo sul solo cammino affinché possiate farvi forza gli uni sugli altri. Cecilia, tu sei il loro angelo custode"

"Oh, no! Non credo proprio!" esclamai, scuotendo la testa con decisione "Non la voglio questa responsabilità. Ci ho provato, e vedi com'è andata a finire! Adele stava per essere violentata e Anwar stava per morire dissanguato"

Mi sentivo terribilmente in colpa, sapevo di non aver fatto abbastanza.

Se solamente avessi impedito a entrambi di entrare al Ducan's, tutto questo non sarebbe successo.

Chimera || CanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora