Capitolo 19.

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Quella sera, l'aria che si respirava a Nairobi era afosa e ricca di umidità.

Non avevo bisogno di uno specchio per sapere che i miei capelli si erano elettrizzati completamente, assumendo le somiglianze di un nido di rondini distrutto dal vento.

Per evitare che chiunque, guardandomi, si spaventasse, mi affrettai a legarmi i capelli in una coda alta, incurante dei ciuffi più piccoli che sfuggivano all'elastico.

La brezza calda della sera accarezzò la mia nuca nuda e imperlata di sudore, aumentando il calore che il mio corpo continuava ad accumulare.

Mi piacevano i mesi estivi.

Il sole tramontava più tardi e la calura della sera mi permetteva di girovagare per le vie senza beccarmi un'insolazione a causa del sole.

Se c'era una cosa che il mio corpo proprio non reggeva, questa era il caldo.

Potevo reggere le temperature più basse di Londra senza lamentarmi mai e senza che il mio corpo ne risentisse più di tanto – mi bastava indossare tre paia di collant e due maglioni pesanti per riuscire a sopravvivere una giornata intera fuori casa.

Non ero una persona freddolosa, le temperature di Londra avevano forgiato il mio corpo negli anni.

Tuttavia, soffrivo terribilmente il caldo e, più volte, l'afa di Nairobi mi aveva messa duramente alla prova.

Vivere a Nairobi significava uscire di casa a qualsiasi ora del giorno o della notte e ritrovarsi, dopo un'ora scarsa, la maglia già zuppa di sudore.

Probabilmente, quel caldo afoso e torrido che caratterizzava l'intero Kenya, sarebbe stata una delle poche cose alle quali non mi sarei mai abituata.

"I Gomes ti hanno spaventato?" domandò Can, scrutandomi con attenzione.

Sorrisi e scossi la testa ripensando alla famiglia Gomes e alla sua vivacità.

"Sono una famiglia bellissima. Sembrano molto uniti" ammisi e Can si appoggiò contro la ringhiera del balcone.

Era un balcone piccolo, occupato per lo più da piante verdissime e rigogliose che ci obbligavano a rimanere vicinissimi per quanto spazio occupavano.

"Lo sono" ammise a sua volta Can, lanciando uno sguardo alle sue spalle dove, attraverso la porta-finestra, era possibile guardare l'intera famiglia riunita a tavola.

"Ti vogliono davvero molto bene qui" continuai, soffermandomi sulle sue labbra curvate in un sorriso sereno.

"Sono stato molto fortunato" concordò Can "Non abbiamo lo stesso sangue, ma quando sono con loro mi sento molto più a casa di quando sono con i miei genitori"

Inclinai il capo e notai un'espressione amareggiata dipingersi sul suo volto.

"Non serve avere lo stesso sangue per considerare qualcuno come suo figlio e amarlo con tutto sé stesso" bisbigliai e, questa volta, le iridi nocciola di Can si focalizzarono sulle mie, ipnotizzandomi "I Gomes ti amano, ma sono sicura che i tuoi genitori ti vogliano bene molto più di quello che pensi"

"Non è così semplice" abbozzò un sorriso sprezzante e distolse lo sguardo dal mio volto per concentrarsi sul cielo stellato proprio sopra di noi "Tu hai una famiglia perfetta, pronta a nascondere ogni tuo errore. Hai avuto tutto perché te lo è stato concesso, perché porti il cognome che hai, non perché te lo sei meritato, quindi non puoi capire"

Le sue parole mi colpirono come un fulmine a ciel sereno.

Arrivano veloci, in maniera inaspettata, senza alcun preavviso, e fecero molto più male del previsto.

Chimera || CanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora