Capitolo 22.

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Pov's Can.

Dieci anni prima.


A diciannove anni mi sentivo invincibile.

Il liceo era appena terminato, le tiepide temperature di Giugno avevano cominciato a lasciare il posto al caldo torrido tipico dei mesi estivi di Istanbul ed ero pronto a vivere l'estate più intensa e spensierata della mia vita, prima di dover prendere un volo per Roma, la città eterna.

Quella sera il ristorante era completamente pieno.

Non appena un tavolo si liberava, ecco che altri clienti prendevano posto e, se da una parte percepivo le braccia indolenzite voler cedere da un momento all'altro, dall'altra parte il petto mi si gonfiava di orgoglio e la voglia di fare sempre di più mi spingeva a non mollare.

La cucina era piccola, ma io e mio padre avevamo imparato a dividerci gli spazi e a non ostacolarci a vicenda.

Entrambi perfezionisti fino al midollo, dopo anni passati ad osservarlo armeggiare con piatti, pentole, spezie e verdure, avevo impresso nella mia memoria con talmente tanta precisione ogni suo gesto, ogni suo movimento, che ad occhi chiusi sarei riuscito a replicare i suoi piatti senza dover seguire alcuna ricetta.

La cucina era l'unico luogo in cui riuscivo a sentirmi parte di qualcosa.

Tutti sono in grado di cucinare un petto di pollo, ma per fare della cucina un'arte ci vuole coraggio.

Bisogna saper osare.

Mi piaceva perdermi nel mercato principale di Istanbul, immergermi nei colori della verdura di stagione, fermarmi ad odorare ogni spezia per indovinarne il nome solo dall'odore.

Mi piaceva toccare con mano ogni frutto, testare la consistenza dei prodotti, valutarne la freschezza, la provenienza, la qualità.

Quando andavo a lezione, la mattina mi svegliavo alle cinque del mattino solamente per accompagnare mio padre al mercato e, dopo aver fatto la spesa, tornavo a casa, facevo colazione e correvo nuovamente a scuola dove, puntualmente, arrivavo in ritardo, con le mani che profumavano ancora di spezie e farina.

Il pomeriggio studiavo - o, per lo meno, ci provavo - e la sera aiutavo i miei genitori nel ristorante.

La notte mi buttavo nel letto con le mani distrutte ed il cuore stracolmo di gioia.

Ero stanchissimo, ma non sarei mai stato in grado di rinunciare al calore della cucina, ai suoi profumi, ai suoi rumori.

Avevo vinto una borsa di studio per proseguire i miei studi a Roma.

Lì avrei seguito un corso di cucina professionale indirizzato sulla cultura italica ed europea.


"Dio ha grandi progetti per te. Ma non dimenticarti di noi, della nostra piccola realtà, quando a Roma ti vorranno tutti nei loro facoltosi ristoranti di lusso!"

Mia madre me lo ripeteva sempre con un sorriso orgoglioso dipinto sulle sue labbra rosse - come se avessi già fatto carriera e non fossi un povero aspirante cuoco ancora alle prime armi - ed io mi limitavo ad abbracciarla, assicurandole che mai e poi mai sarei stato in grado di rinnegare le mie radici.

I miei genitori avevano lavorato per tutta la vita, prima di riuscire ad acquistare un piccolo locale nella periferia della città, vicino al porto.

Era da sempre stato il loro sogno, quello di aprire un ristorante tutto loro dove poter cucinare per gli amici di sempre e per i turisti che, ogni anno, invadevano la città, con i loro sguardi curiosi e le loro macchine fotografiche pronte ad immortalare ogni momento.


Chimera || CanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora