Capitolo 37

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.37.

SETH

Non mi pento di niente

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Non mi pento di niente. Silene era salva, e col tempo, sapevo che sarebbe stata bene, e felice, un giorno. Da qualche parte, lontano da tutto questo odio fra razze. Distante dalla guerra, dal dolore, e dalla morte. Lei era vita e adesso, avrebbe vissuto anche per me.

Non opposi resistenza quando una decina di soldati caricarono nella stanza della mia amata, assalendomi; sarebbero state energie sprecate.

Il dolore provocato dai loro colpi ripetuti, ad oltranza, fu qualcosa di momentaneo. Il ricordo del sorriso della mia Lene anestetizzava qualsiasi sofferenza inflittami.

Lei era come il sole. Luce soffusa e calda, di una gioiosa giornata d'estate. Mi scaldavo al solo pensarla, sentendomi confortato dalla sua memoria malgrado il pestaggio subito. Ma non avevo paura. Ero in pace.

Le guardie armate, dopo essersi assicurate che fossi fuori gioco, e inerme sul freddo pavimento, accanto all'altro carnivoro supino, mi legarono le braccia dietro la schiena con spesse cinture in cuoio, applicandomi una museruola - una specie di maschera per la bocca - in modo tale che non potessi mordere nessuno. Mi sollevarono a forza, scortandomi all'interno della villa.

Attraversai infinite camere e salottini - a cui non prestai molta attenzione - fino a giungere in uno studio spartano e ombroso, dove mi aspetta lui. Il padre di Silene. L'arredamento minimal, esaltava l'ampiezza della stanza, ma sulla parete destra, una gigantografia d'una giovane donna bionda, somigliante alla mia cerbiatta, mi fissava con lieve imbarazzo. Bella come la figlia.

Uno delle tre personalità di spicco, diurne, se ne stava seduto dietro ad una spessa scrivania in mogano, intento a digitare qualcosa sulla tastiera di un PC portatile.

«Finalmente ci conosciamo faccia a faccia, paparino», enunciai, distogliendo gli occhi da quelli della foto. Venni spintonato sulla sedia, difronte alla scrivania, e vigilato da due soldati. Uno di loro mi strattonò per i capelli, spingendo la mia testa contro alla dura superficie in legno mentre il loro portavoce proseguiva nel suo lavoro. Il malore alla tempia si diffuse su tutta la fronte: «Grazie, è stato bellissimo», grugnii dolorante e stordito. Ricoperto da ematomi e segni di percosse, un altro livido in più non avrebbe fatto testo.

A quel punto il padre di Lene si volse verso di me, squadrandomi analitico. Il suo sguardo era freddo, ma vagamente curioso, somigliava fisicamente anche lui alla figlia, ma meno rispetto a quella ch'era stata la madre: «Mi chiedo cosa ci sia di sbagliato in te», si chiese fra sé, «Uno dei super predatori più pericolosi al mondo, e non è stato in grado di uccidere una cerva di piccola taglia. Assurdo, non credi anche tu?», proseguì.

Nonostante mi fosse davanti, e mi stesse dando del "tu", sapevo bene che non parlava con me; ma rimasi scioccato quando voltò lo schermo del portatile - su cui stava lavorando - verso di me.

Mamma?! Sgranai gli occhi. Un primo piano di mia madre mi fissava con superficialità e sdegno.

«Hai ragione, Paul. Sono sconcertata quanto te», proferì, impassibile. Da quando erano al punto di chiamarsi per nome?!

«Martha, è evidente che la situazione ci è sfuggita di mano. Avevo stabilito che Silene doveva morire settimane fa; la Glomera non ne sarà felice», continuò.

«Siamo noi la Glomera, Paul; uno vale l'altro. Vorrà dire che Seth andrà a fare compagnia al nostro caro simile, Nathaniel», asseverò con tono monocorde.

Parlavano di Silene e me come se fossimo stati oggetti. Disgustoso. Ero sempre più confuso. Cosa diavolo stava succedendo?!

 Cosa diavolo stava succedendo?!

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CONTINUA...

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